Ricominciare

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Prossima stazione New York City, annunciò la voce metallica dell'altoparlante.
Chiusi il libro e lo infilai bella borsa. Le cinque e quaranta. Meno di un quarto d'ora e avrei rivisto mio fratello, dopo un anno. E già mi sentivo mortificata al solo pensiero di ritrovare il suo sorriso genuino e il suo "te l'avevo detto" stampato in fronte.
Come ogni fratello maggiore, aveva la capacità di sapere cosa fosse meglio per me e aveva sempre avuto ragione, su tutte le mie scelte. Sbagliate, fin dai tempi dell'asilo. Per fortuna, nonostante la mia ostinata cocciutaggine, era ancora disposto ad aiutarmi. Anche quella volta, l'ennesima.
Si era offerto di ospitarmi presso la sua autorimessa e, per il gran ritorno, aveva sistemato la stanza adibita a magazzino nel retro del suo edificio. Il patto era che terminassi l'università. Avevo accettato. Avere un obbiettivo da perseguire mi sembrava un buon modo per ricominciare. Ancora.
Di comune accordo, avevamo deciso di non dire nulla a nostra madre riguardo al giaciglio precario. Se solo avesse saputo della sistemazione se ne sarebbe dispiaciuta. Mi ero limitata ad avvertirla del rientro a New York e che sarei stata ospite di una vecchia compagna di università. Nè io nè mio fratello avevamo preso assolutamente in considerazione un possibile ritorno a casa di lei. Sarebbe stata un'agonia  per entrambe e le sfuriate all'ordine del giorno.
Dal cellulare rilessi l'ultimo messaggio di Paul "Vaffanculo", scritto a caratteri cubitali. Semplice e diretto. La parola perfetta a conclusione dell'ennesimo storia andata male.
Per lui avevo lasciato l'università a pochi esami dalla fine e mi ero trasferita in una sperduta cittadina di mille abitanti nel Nevada, dove l'arsura e l'aridità della terra e avevano scavato la mia pelle e la mia anima. Avevo trascorso gli ultimi  due anni nella fattoria della sua famiglia a mungere vacche, accudire maiali e soprattutto a sorbirmi la sua rozzezza e quella della sua razza. Lo avevo conosciuto a New York durante una cena a casa di amici. Da subito mi era sembrato un ragazzo semplice, direi un puro, senza grilli per la tasta, a tratti introverso. Forse perché proprio avulso dalle abitudini cittadine, mi aveva conquistato. Me ne ero innamorata all'istante ma come tutti gli uomini che avevo avuto, anche lui rientrava nella categoria "incantatori", capaci di stregarti con la dolcezza, e la galanteria per poi trasformarsi in secondini ossessivi.
Nell'ultimo anno non c'era sta una sola sera senza che le sue mani non avessero marchiato la mia pelle e L'alito alcolico non avesse infettato l'aria che respiravo. Il problema non era lui, ma io. Io che non mi adottavo, che non facevo mai cos'è giuste, che non pulivo bene, che mo rispondevo a dovere, io che snervavo.
Avevo preso la decisione di andarmene dopo l'ennesima sfuriata. Non gli avevo detto nulla, mi ero limitata a lasciare un biglietto sul letto con lo stesso messaggio appena ricevuto. E poi, insieme alla mia sacca della lavanderia e ai lividi, ero andata a pendere il treno in gran fretta. E ora ero lí, di nuovo, nella mia città natale

L'uragano di un batter d'aliDove le storie prendono vita. Scoprilo ora