3. Little by little

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È nello studio di registrazione di musica, siede in cima ad uno sgabello dal sedile foderato di pelle sintetica, revisiona le ultime tracce, pulisce ciò che non gli piace, sono le nove e qualcosa e fuori è buio, le tende accostate, la luce solo artificiale, gialla.

Non fa freddo, sono accesi i termosifoni, c'è quest'aria d'inverno. C'è un pacchetto di barrette di cioccolata aperto vicino al computer.

Genn fissa lo schermo, le linee del suono.
Poi non più.

Il piano dell'orizzonte, l'asse di equilibrio sprofonda in basso, il centro unificatore e propulsivo da cui scaturiscono i pensieri si scinde dal corpo.
Non è più rivolto al mondo fuori, gli stimoli sensoriali non sono più attraenti.
La vera realtà esterna, l'unica il cui peso abbia una qualche importanza, è interna.
Genn sente i peli che si rizzano sulle braccia, quello sgabello all'improvviso è troppo alto, lui sta seduto proprio sul ciglio, è instabile ma non riesce a muoversi, a mettersi al riparo.

È distinto, infraintendibile, ha lasciato un solco che non ricongiunge i propri lembi dopo il passaggio nel suo grembo, e si eternizza lì.
Sotto la felpa, la maglietta di cotone, il bordo dei jeans con i bottoni di metallo, nell'involucro dei vestiti quotidiani che sono ordinari, sempre quelli.
Muscoli, carne, nervi.
Vita.
Che procede.

Ma Genn non procede, sta fermo, immobile.
Altrimenti il mondo si romperebbe ancora in due, in schegge sempre più inservibili. Come può farlo? Tace, vuole che sia quel non lui a procedere. A esprimersi ancora, a prendersi tutto il suo spazio e la sua esistenza per farlo, che consumi ogni particella di Genn per imporre se stesso.
Lo lasciarebbe fare senza protestare, adesso. Sarebbe giusto così.

Non si stacca finchè a mezzogiorno non arriva Alex, gli si è inginocchiato vicino, gli ha preso le mani, scostato il ciuffo dalla fronte.
Genn deglutisce. Gli occhi sono quasi supplichevoli.
«Si è mosso.»
«... davvero?»
«Si è mosso per la prima volta.»

Alex però ingoia l'emozione, non vuole pensare solo a sè, aspetta il motivo di quella smorfia desolata.
«È una cosa bellissima.»

Genn ha nelle narici l'odore dell'ambulatorio.
La porta da cui sarebbe dovuto entrare. «Sai cosa non è bellissimo? Che io lo volevo buttare.»

Alex si permette di sospirare, di cacciare fuori l'ansia. «Era solo per questo, allora? Santo cielo, Genn... Non l'hai mai voluto davvero.»
«Sono andato nel maledetto ospedale, Alex. Senza dirti niente. Lo avrei fatto.»
«Non l'hai fatto.»
«Non spetta a te giustificarmi.»

Alex si chiede per quanto ancora si rifletterà addosso questa freddezza, questo disamore, per quanto ancora nella testa di Genn dev'essere sempre colpa di Genn.

«Lui non è quello che sa tutto? ti ha perdonato.»

No, pensa Genn, ha così tanto bisogno di essere amato che troverebbe davvero illogico che qualcuno non lo amasse.

Ciò che gli permette di salvarsi è che adesso anche lui ha bisogno di amarlo.

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