In veneto ho vissuto poco. Ho rare immagini dell' infanzia che mi riportano alla mente le vecchie cime del Monte Grappa; anni fa, durante le afose estati cittadine regalavano un gelido, brusco conforto. Si andava in macchina seguendo una strada tutta curve che serpeggiava sui ripidi versanti della montagna, ed io, a pochi anni, a guardare giù avevo paura che l' auto potesse scivolare d' un tratto, fino in fondo, inesorabile. Quando non guardavo giù, però, rimanevo di stucco per il fantastico colpo d' occhio sulla pianura circostante: si scorgeva tutto, persino il mare da lì ben distante da parer così calmo, quasi un tutt' uno col cielo annuvolato.
Sarei potuto nascere ovunque, mi dico sempre. Ho visto la pima luce sotto il sole agostino di Verona, vent' anni fa. Da allora non smisi di muovermi tra il Veneto e l' Emilia Romagna.
Avevo ancora una manciata di anni quando io e mia madre lasciammo i monti e ci trasferimmo ad Imola. Ero troppo piccolo per vedere con rammarico la nostra dipartita, quindi preparati i nostri pochi bagagli partimmo, senza una lacrima, verso la città. Mio nonno fu un fiero Alpino. Insieme a sua moglie si salvò miracolosamente dalla deportazione. Fino a che la salute glielo permise partecipò ai raduni seguenti ed era solito girare per casa con il cappello piumato, portato come motto d' orgoglio che poco più su, tempo addietro, perse amici e parenti. Il giorno in cui io e mia madre partimmo i nonni veneti mi regalarono una spilletta gialla con un cavallino rampante. Il cavallino nero aveva la chioma nera e al vento, con le zampe anteriori sollevate e fiere. Ero matto per la Ferrari.
Non avevo particolare passione per i motori, ma la rossa, ai miei piccoli occhi del tempo, provocava emozione ogni domenica. Pochi anni più tardi ricordo mi furono regalati un paio di berrette rosse fiammanti con tanto di cavallini, un giubbotto ed un pantalone altrettanto rossi. Giravo per casa così vestito e mi sentivo come nel paddock a pochi minuti dal via. Fu una gioia andare a vivere ad Imola: al tempo si teneva il Gran Premio, e fu fantastico vedere la rossa di Schumacher sfrecciare sulla Rivazza. Mi ci aveva portato Simone in sella alla sua moto sportiva.
Era un appassionato di motori, le uniche volte che potei sperimentare le brezza di cavalcare una motocicletta risalgono ancora a quegli anni. Mia madre non voleva, ero piccolo, aveva paura che potessi cadere, e Simone che fremeva dalla voglia di farmi fare un giro in sella le prime volte desistette. Un giorno, però, mi caricò di nascosto e guidò per ore. Lui davanti io dietro, col casco enorme ed abbracciato al suo pancione, che avevo paura di volare via e perdermi tra il cemento delle strade. Nella nostra casa viveva un altro ragazzo cui delle automobili non importava nulla.
Era magro e alto: seppure a quell' età mi sembrassero tutti alti per parlare con lui spesso mi alzavo in punta di piedi, e mi sentivo grande quando indossavo in casa gli stivali di zorro, allora gli unici superstiti di un vecchio costume di carnevale. Marco, si chiamava, era un mago. Lui mi diceva di essere un illusionista, ma io, libero dalla realtà come tutti i bambini, gli ripetevo che era un mago. Ero incantato dal suo trucco della moneta. Me la mostrava davanti agli occhi e pochi istanti dopo la tirava fuori dal mio orecchio. "E' un trucco" mi diceva, ma si rifiutò sempre di spiegarmelo.
All' epoca abitavo ad Imola ma frequentavo l' asilo a Faenza. Ogni mattina si prendeva l' auto in tutta fretta e ci si catapultava in tangenziale. Quando cominciai le elementari io e mia madre ci trasferimmo a Faenza. Aveva trovato un appartamento più spazioso che dividevamo con una sua amica. Non vidi più Simone, inoltre in quegli anni persi l' interesse per le rosse; smarrì le due berrette, la giacchetta mi divenne stretta e decisi che i pantaloni rossi non mi donassero più di tanto.
Alle elementari andavo bene, come tutti i bambini. Mi piaceva geografia, mi interessava il mondo e la sua storia. Non avevo un' avversione particolare per alcuna materia, matematica era divertente. C' era un problema però. Scrivevo male; la mia calligrafia era illeggibile e la maestra di italiano faticava a decifrare i miei brevi scritti. Formò un gruppetto nella classe composto dagli alunni che come me realizzavano geroglifici al posto di ordinate lettere dell' alfabeto, e durante le ore di italiano ci teneva in disparte assegnandoci inefficaci esercizi di calligrafia. Gli altri bambini avevano calligrafia peste, anche se in realtà nessuno scriveva tanto male come Francesco, che addobbava le pagine di cancelloni e strappi. Col passare delle settimane miglioravano tutti, persino il peggiore, Francesco, riusciva terminare le esercitazioni senza ritrovarsi con le mani cosparse di inchiostro ed il foglio sgualcito. Io, però, non miglioravo proprio. Ero piccolo e piangevo spesso, mi sentì inetto e cominciai a piantare il broncio ogni qual volta in classe ci fosse da dover scrivere: ricordo una mattina in cui la maestra mi diede un foglio e mi mise alla prova con pervicacia, volenterosa di risolvere il problema.
"Scrivi", mi disse.
Presi la penna e cominciai a scarabocchiare qualche lettera. Lei mi osservò con sguardo disteso e mi venne incontro. "Ecco, vedi. Guarda come tengo io la penna" La sua mano s' avvolse a forma di becco attorno allo strumento. "Tu la tieni col pugno, scrivi col mignolo!".
Ci trasferimmo qualche mese dopo. Mia madre si sposò e andammo a vivere vicino Modena; questa volta piansi. Non avevo lasciato i monti. Avevo lasciato i miei primi amici, quelli dei primi anni di elementari. Luca, Daniele e Davide quando annunciai in classe che sarei partito mi fecero trovare il giorno seguente sul mio banco un raccoglitore pieno di loro disegni. "tienilo sempre con te", mi disse Davide. Lo sfogliai per tutto il viaggio, ed una volta arrivato nella nuova città lo sistemai in bellavista nella libreria grande del salotto, così che tutti potessero vederlo. Paolo, l' amico che ricordo con più chiarezza, non mi regalò nulla. Mi chiese quando sarei tornato; pianse insieme a me. Paolo tifava per l' Inter, io ero cresciuto in una casa di juventini. "E se le tifassi entrambe?" , chiesi a Paolo, quell' ultimo giorno. "Sono nemiche, non credo si possa". Scelsi l' Inter, che perdeva sempre, ma era la nostra squadra.