Nella nuova città dovetti ricominciare. I primi giorni di elementari furono difficili, così come li si immagina per un bambino che cambia scuola in corsa. Me ne stavo solo durante l' intervallo, in banco annoiato durante le lezioni. Mi chiedevano da dove venissi, perché mi fossi trasferito, come mi trovassi lì con loro; le solite domande alle quali un bambino sconsolato non ha voglia di rispondere.
"Ma tu parli?" Mi domandò il mio compagno di banco, dopo che per ore non avevo spiccicato parola. Una mattina venne una bambina da me durante l' intervallo che ero solito passare a gironzolare per il prato col naso all' insù. Mi si parò davanti con aria allegra. Aveva appena corso per il campo nel tentativo di raggiungermi insieme ai suoi amici, che più lenti, sopraggiunsero in un secondo momento.
"Io ho un fratello come te, sai?", proruppe.
"Te lo presento, vieni a giocare con noi, dai!"
Le dissi di no, scuotendo il capo con forza.
Lo feci subito, prima che i suoi amici potessero sentire. Abbassò lo sguardo e ci rimase male. Non capì il mio rifiuto. Non lo capì neanch'io. Vidi i suoi amici guardarmi perplessi e ripresi a camminare per il prato mentre attorno s' alzavano urla e schiamazzi. Un fratello come me? Che voleva dire? Io ero un bambino triste, era forse triste anche suo fratello?
Finì le elementari che piansi ancora, ma questa volta di nascosto. Mi ero fatto molti amici, ma sapevo già che non li avrei più visti siccome tutti loro avrebbero frequentato le scuole medie dall' altra parte della città. Ci fu la promessa di tenersi in contatto ma ci incontrammo solo un paio di volte in estate, poi l' inverno fece ritorno e non ci si vide più. Solo un paio di loro, con mia sorpresa, li incontrai nuovamente a basket.
Ci iscrivemmo tutti in quel settembre, sia io che loro. Era il terzo sport che provavo dopo le fallimentari esperienze con il nuoto, il judo che mi costò una frattura ed il calcio, che non m' andava di correre. Anche a basket si correva, ma la sensazione di sentire la palla tra le mani e non tra i piedi la sentivo più familiare. Poi ci andavano i miei amici, appunto; sia quelli di scuola che quelli di catechismo. Ricordo il primo allenamento; mi presentai insieme ad un amico. Una volta legate le biciclette una con l' altra alzai lo sguardo: da fuori sembrava una palestra fatiscente, una delle tante costruzioni degli anni settanta che trasudano logorio alla prima occhiata. Entrati, l' impressione fu migliore. Gli spogliatoi erano in fondo al breve corridoio, ma io ed il mio amico eravamo arrivati già vestiti, con le nike allacciate e la canotta dentro le braghette corte. Il mio amico aveva già fatto il primo allenamento, per cui una volta che mettemmo piede sul parquet l' allenatore mi venne incontro per presentarsi. Eravamo a metà campo, tra i due canestri che mi parvero due monti, ed i palloni duri e grossi i massi che vi rotolavano via. Man mano che l' allenatore mi si avvicinava gesticolava in modo buffo e molto articolato. Ricordo che strizzai gli occhi per capire se stesse parlando a me o a qualcuno alle mie spalle, ma quando fu a pochi passi vidi i suoi occhi fissi su di me. Continuò a muovere le braccia e a parlare lentamente. Pensai avesse dei problemi; mi disse, indicandomi ed agitando la mano a mo' di becco: "Tu...parla...italiano?"
Lo guardai storto. Annuì con il capo ma la sua espressione rimase perplessa. Dovetti rispondergli per esteso, dirgli che parlavo italiano. In tutta risposta rilassò la fronte corrugata e si voltò, tornando sui suoi passi. "Benissimo. Oggi ci alleniamo sui palleggi."
Avevo undici anni, e la mia mente di tanto in tanto fuggiva ancora sulle cime del Monte Grappa. Qua in Emilia parlavano tutti strano, raddoppiavano le consonanti quando non ce n' era bisogno, e non tenevano conto della differenza tra la esse e la zeta, finendo per ammazzarne la pronuncia sotto la lingua. Io non avevo accenti. Avevo una buona comprensione del dialetto veneto; lo capivo bene, così come i miei cugini cresciuti con me in quella valle. La comprensione mi era difficile solo quando il nonno si metteva a tavola con una bottiglia di grappa e chiamava i suoi amici, che abitavano oltre la recinzione: lì, quando confabulavano con francesismi pepati e toni accesi, non si capiva granchè. Ma il dialetto di quei monti non lo sapevo parlare. Quel tono cantilenoso non mi è mai andato giù del tutto, e mi limitavo ad imitarlo con poco estro. In Emilia il modo di parlare era totalmente diverso, e poi tra bambini si parlava normalmente. Si parlava in italiano, l' unica lingua che abbiamo sempre saputo leggere, scrivere, ascoltare. Mi chiesi perché l' allenatore, quel pomeriggio, mi avesse domandato se parlassi italiano. Non ero mai stato all' estero, neanche in vacanza. I miei amici di scuola parlavano italiano, i miei genitori a casa parlavano italiano. Io pensavo in italiano e conoscevo solo l' italiano. Che altra lingua avrei dovuto parlare? L' inglese, sì, ma alle elementari si insegnava poco e male. L' italiano era nei miei pensieri.
Qualche tempo dopo chiesi a mia madre che altra lingua avrei dovuto sapere. Lei non capì. Aveva le braccia bianche arrossate, che si era scottata al sole, e mi disse di non pensarci. Allora insistetti e sospirando mi rispose, mentre si spalmava la pomata. "Tra poco tempo sarai italiano anche tu".
Non avevo mai visto altro posto. Tutto ciò che avevo vissuto era nelle città del paese che a scuola insegnano essere a forma di stivale. Ricordai le vacanze in Sardegna dove l' acqua era tiepida ed il mio amico ci si buttava a cannone dagli scogli; le camminate in Trentino, con i cartelli stradali in tedesco che ci fecero perdere per i sentieri. Mi ricordai le vacanze nel tram tram della Rimini d'estate: con il gol di Grosso che fece esplodere la hall dell' hotel, dove erano tutti cogl' occhi sul monitor a trattenere il fiato. Con paura mi tornò alla mente la biscia che trovammo a pochi passi dalla nostra casa Sul Monte Grappa e che scacciammo via tirando dei rametti; Ravenna, dove mia madre ci portava spesso per lavoro, e Mantova, i pomeriggi passati sulla riva del Mincio.
Ma io non ero italiano, non come gli altri. Gli altri erano italiani. Allora capì, in fondo era facile. A scuola cominciai a guardarmi attorno con maggiore attenzione. Ce n' erano molti altri, come me, che non erano italiani, ed era piuttosto semplice distinguerli: gli italiani erano solo quelli bianchi, pensai. Mia madre era bianca, suo marito era bianco. Loro erano italiani. Io ero nero, non potevo esserlo. Pensai fosse questo il problema.
Le cose però si complicarono quando capì che neppure tutti i bianchi erano italiani. Alcuni bambini a scuola erano pallidi come le pareti, parlavano l' italiano come gli altri, con quelle stupide esse confuse con le zeta, ed erano nati in Emilia, ma non erano italiani. Ma allora cos' è un italiano?, mi chiedevo. Come si fa ad essere italiani? Mia madre che era italiana mi disse che i miei veri genitori erano ghanesi. O meglio, lo era mio padre, mia madre era nigeriana. Dunque io ero ghanese. "Dov' è il Ghana?"
"In Africa"
"Si, lo so. Ma dove esattamente?"
"Non lo so."
Mi regalarono un atlante, uno di quelli pieni di disegni e di bambini felici che corrono insieme, bianchi, neri e gialli, attorno al mondo. Imparai dove fosse il Ghana, mi imparai la capitale, ed ogni qualvolta qualcuno mi chiedesse da dove venissi gli rispondevo Ghana, Accra.
"Lo sai il ghanese?" "A quanti anni sei venuto qui? Parli bene." "Fai un po' di soldi e torna in Africa, si sta meglio che qua, fidati". Torna, come se ci fossi mai stato.