come cenere e fumo

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Una lacrima le scese lungo il viso e le scorse giù per la guancia. Lei era lì, seduta a gambe incrociate sul letto, piegata in avanti su quel quaderno dalle pagine strappate, una penna tra le dita come fosse una sigaretta e i capelli tirati indietro da un mollettone. Mostrava al foglio le sue nudità, senza vergogna, si lasciava accarezzare la pelle nuda dalla fresca brezza che attraversava la finestra socchiusa in quella notte di settembre. Il seno le pendeva, così come le labbra, ed un sorriso accennato nascondeva le urla che mai scalfirono i suoi denti. Sospirava in continuazione e rimuginava sulle parole non dette ed i pianti repressi che le portavano alla mente vecchi ricordi. Cercava di trovare il modo più giusto per esprimere il suo amore: desiderava scrivere ciò che lui avrebbe sempre voluto sentirsi dire, ma che lei mai gli aveva detto.
Alzò gli occhi alle stelle e si fermò a fissarne una in particolare, senza saperne il nome, ma che le sembrava brillasse un po' di più delle altre. La guardò pensando a come dovesse essere grande e terribilmente calda, ma troppo lontana perché qualcuno se ne accorgesse: un po' come lei era sempre stata. Solo lui era riuscito a volare nello spazio e ad avvicinarsi al fuoco senza mai provare la paura di scottarsi, fino a farsi illuminare il volto, bruciare la pelle e scaldare il cuore. L'aveva amata un po' come il sole ama la terra: prova sempre a darle luce e a farla sentire al sicuro. Così la terra si perse attorno a distrazioni, (come la luna e l'universo), e mai dette particolare importanza al sole; solo in quel momento i suoi mari entrarono in tempesta e le sue terre si scossero.
"Ciao Ian, sono Margherita. Non so se leggerai mai le mie parole, ma ho sentito il bisogno di scrivertele in ogni caso, forse più per rileggerle in futuro e sentire qualcosa. Devo convincere il mio avido cuore a lasciarsi travolgere, me lo hai sempre detto anche tu.
La prima volta che ci siamo incontrati io ero seduta alla fermata dell'autobus con la sigaretta adagiata tra le labbra, tu ti sei avvicinato ed io ti ho guardato aspirandone il fumo. Ti sei messo a ridere, e pensavo volessi sgridarmi, dirmi che mi sarei rovinata i polmoni. Invece ti sei seduto e hai detto: «Non sei capace a fumare. La ciospa non si tiene così». Poi hai afferrato la mia mano e mi hai abbassato tutte le dita, tranne l'indice ed il medio che reggevano la mia Camel. Io t'ho guardato con sguardo curioso e ho risposto: «Ma si fuma con le labbra, la bocca ed i polmoni, non con le mani.», e tu ridesti di nuovo.
Ero quasi infastidita da questo tuo atteggiamento arrogante e prepotente, ma poi dicesti: «Anche i baci si danno con le labbra e la bocca. Ma quando le mani, nel frattempo, ti sfiorano il corpo, quella è tutta un'altra cosa. Non credi?». Alzasti un labbro accennando un sorriso, e mi chiedesti una sigaretta. Io te la concessi, e tu mi confessasti che in realtà non fumavi, ma sapevi comunque tenere una sigaretta meglio di quanto facessi io.
Iniziammo a parlare e tu prendesti il mio autobus, anche se saresti dovuto andare dalla parte opposta della città.
Pochi mesi dopo smisi di fumare, per un po' di tempo, perché tu diventasti una dipendenza più forte delle altre. Ma fino a quel giorno continuai a tenere le mie sigarette con tutte le dita alzate, anche se dicevi che ero ridicola.
Il primo bacio me lo lasciasti due settimane dopo, in aprile.
Stavamo camminando nel parco di Via Cadore, io sapevo che avresti voluto baciarmi, ma non volevo concedermi. Provasti ad avvicinarti a me, ed io mi spostai.
Fui infastidita dal tuo «Non vuoi baciarmi?»; così sfacciatamente mi chiedesti. Io sorrisi e negai muovendo la testa, così tu mi bloccasti le braccia con le tue mani e costringesti il mio volto a stare a pochi centimetri dal tuo. «Sicura?» ti mordesti un labbro. Di nuovo, negai scuotendo la testa. «Sei tutta strana!» mi lasciasti, e ricominciasti a camminare. Io ti seguii stando qualche passo alle tue spalle, e tenni lo sguardo basso, senza dire più niente. «Ora fai l'offesa?» ti fermasti. Io annuii. Ti avvicinasti, di nuovo, e mi alzasti il viso passandomi un dito sotto al mento. «Non m'hai baciata.» sussurrai. «Hai detto di non volerlo.» sussurrasti. «Ho anche detto di non esserne sicura.». «Tu vorresti che ci baciassimo?». «Sì.». Tu ti avvicinasti, ed io mi ritirai nuovamente. Ti passasti una mano tra i capelli e sbuffasti, «Cosa dovrei fare?» chiedesti sconsolato. Io sorrisi.
«Te l'ho detto – ribadisti- sei tutta strana. Con te è sempre difficile sapere cosa fare e...» io interruppi le tue parole e ti lasciai un bacio a stampo. Arricciasti la fronte, confuso. «Perché?» Scoppiasti a ridere, ed io con te. «Non amo sentirmi dire che sono strana, lo so senza bisogno che me lo dica qualcun altro.» «E allora perché m'hai baciato?» «Perché quando lo dici tu mi piace.» sorrisi. Tu t'avvicinasti per baciarmi di nuovo, ed io serrai le labbra. Ma tu iniziasti a lascarmi dei piccoli baci su esse, ancora chiuse, e con la lingua chiedevi il permesso che io negavo mentre scuotevo la testa. Ma tu continuasti, ed io dovetti socchiudere le labbra per sorridere, cosi ti infiltrasti ed iniziasti a baciarmi, ed io a baciare te. Ancora sento la sensazione dei tuoi capelli sotto le mie dita quel giorno, t'accarezzai con una mano la nuca e con l'altra il collo, mentre tu mi stringesti la vita. Le nostre labbra si possedevano, le nostre mani si desideravano.
Non ci siamo mai dichiarati ufficialmente fidanzati, ma quando eravamo insieme i nostri occhi s'amavano, e quando non lo eravamo si cercavano.
Le tue iridi parevano infinite, di un nero così profondo che a volte dovevo distogliere lo sguardo o avrei perso il filo di ciò che dicevi, perché ero terribilmente assorta nell'osservarle.
Mi ricordo una volta, era giugno, e quella sera eri uscito con un gruppo di amici mentre io ero rimasta in casa. Pioveva, il vento soffiava prepotente sulla città ed io stavo pensando a te. Era usuale per me ormai, talmente innamorata da sentirmi folle, talmente folle da non riuscire a dirtelo.
Mi chiamasti. Avevi bevuto, avevi fumato. Mi dicesti di scendere, io ti risposi che ero in pigiama. Tu mi dicesti che sarei dovuta scendere in qualsiasi condizione, perché tu mi stavi aspettando e non te ne saresti andato per nulla al mondo. Sorrisi, ricordo, e scesi le scale.
Eri fuori dalla porta, sotto l'acqua, io ti chiesi di entrare. Rifiutasti, mi tirasti lì fuori con te. «Lo sai che odio quando fumi o ti ubriachi, perché lo fai?» ti chiesi. Tu sorridesti e dicesti: «Spero sempre di riuscire a smettere di pensare a te, ma tu sei sempre qui dentro, cazzo!» ti picchiasti ripetutamente la nuca, ed io dovetti prenderti la mano per farti smettere. «Cosa ci fai qui?» Chiesi. «Avevo bisogno di te per stare bene.» dicesti, io scossi la testa, e tu continuasti: «Nessuna droga sarà mai meglio dei tuoi baci», e poi farfugliasti qualcosa di incomprensibile, che mi fece ridere. «Margherita? Io sono innamorato di te.» ti lasciasti cadere la testa. Io ti guardai dall'alto, avevi gli occhi persi ed arrossati, ma sempre bellissimi. Mi sedetti e mi sdraiai nel fango affianco a te. «Davvero, totalmente innamorato» confessasti. Non ti dissi nulla. In realtà, non ti ho mai detto che t'amavo. Ma come tante altre cose che mai ti ho detto, anche questa tu già la sapevi, senza il bisogno delle mie parole.
Restammo lì, sdraiati. Tu riacquistasti pienamente la lucidità ed aspettammo l'alba. Poi, salimmo in camera mia e facemmo l'amore. E tu ripetesti che m'amavi.
«Ti amo.» ripetevi, mentre baciavi la mia pelle nuda, lo sussurravi al mio orecchio e m'accarezzavi i capelli.
Verso agosto avemmo la nostra prima vera litigata. Neanche ne ricordo il motivo. Io ti stavo colpendo ripetutamente un braccio, cercando di farti male. Stavo piangendo fino a bloccarmi il respiro, ti colpivo e ti colpivo, e tu mi stringevi i fianchi e facevi male, ma io resistevo.
«Sei tutta strana.» ripetesti, e me l'avevi detto così tante volte da farmi venire la nausea, ma ogni volta mi piaceva più della precedente. Mi fermai e mi guardai attorno, confusa, smisi di piangere e ti fissai. «Ci stiamo picchiando» constatai. «Si» sospirasti una risata soffocata, e ti passasti una mano tra i capelli. «Io sono strana, ma anche tu non scherzi.» Scoppiai a ridere sul tuo petto. «Mi fai incazzare così tanto, sei sempre bellissima che tutti ti vorrebbero, ma così difficile che neanche io riesco a capirti. Mi fai uscire fuori di testa.» Mi abbracciasti forte.
«Tu mi togli il respiro, ed è peggio di avere i polmoni neri per la merda che respiro ogni giorno. Mi laceri internamente.» dissi come se le parole fossero aria.
«Ironico» Rispondesti, «Io quando sono con te invece è l'unico tempo in cui finalmente riesco a respirare.» Sorridemmo. Quante volte l'ho detto che abbiamo sorriso? Era una diretta conseguenza dello stare con te. Io sorridevo.
E tutti si stupivano: solo con te riuscivo ad essere felice."
Margherita scrisse le ultime parole, ormai il pianto le offuscava la vista, i singhiozzi la strozzavano e lo stomaco si contorceva.
Lo amava tremendamente tanto, e scrivere tutto come mai aveva fatto prima le faceva provare emozioni che s'era dimenticata fosse possibile provare.
S'alzò dal letto, indossò una felpa di Ian che aveva dimenticato a casa sua mesi prima, e uscì di casa. Camminò nel silenzio e nel buio di quella nottata, neanche un filo di vento le scostava i capelli, solo il suo respiro affannato si udiva dalla strada. Passò per tutte le vie ed attraversò quel sentiero ripido, finché non lo vide. Sorrise, si avvicinò a lui e gli si sedette accanto, a terra. «Ehi.» mormorò. Poi aprì la lettera ed iniziò a leggerla, arrossendo un po'.
Si conoscevano da un anno, 8 mesi, 4 giorni, 12 ore e qualche minuto. E si amavano dallo stesso momento in cui i loro sguardi si erano intercettati la prima volta, e le loro voci saziarono le loro orecchie. Mentre leggeva accese una sigaretta, la guardò qualche secondo consumarsi e la fumò con tutte le dita alzate.
Arrivò alla fine della lettera ed alzò la voce, piangendo nuovamente: "Quando scoprii che avevi il cancro mi lasciai trapassare dalla morte: un brivido mi percosse, e lo ricordo incredibilmente bene, ora che quel brivido mi accompagna quotidianamente. Avevi detto che sarebbe stato per sempre, ma hai mentito. Non ti biasimo, anch'io non sarei riuscita a vivere innamorata di una persona con il mio carattere, ma dovevi andartene così? Non sono neanche mai riuscita a dirti quanto t'amassi.
T'amo fino alla morte, fino alla vita, fino ai margini di ciò che è reale, fino al confine che separa il possibile dalla leggenda. Ti amo fino a lacerarmi le labbra, t'avrei guardato fino ad essermi sgretolata gli occhi, finché non mi si fosse spento il cuore. Ti ho desiderato come nessuno ha mai desiderato qualcuno, così tanto che neanche Manzoni avrebbe potuto scriverlo, così tanto che nessun poema riuscirebbe mai a racchiuderlo. T'ho avuto e sono riuscita a toccare il cielo. Ora che non ci sei più continuo ad amarti. A volerti più di quanto una Lucia abbia desiderato il suo Renzo. Te lo giuro, me la ricordo la sensazione dei tuoi capelli sotto le mie dita, delle tue mani che stringevano la mia vita, delle tue labbra che mi bramavano e che m'hanno baciato ovunque, senza trascurare nulla. Il tuo amore me lo terrò dentro sempre perché è indelebile, è sicuro, sei riuscito ad amarmi più di quanto io avrei pensato possibile. Mi hai amato più di quanto io riuscirò mai ad amare me stessa, e m'hai dato tutto ciò di cui avessi bisogno. Hai sfamato il mio cuore Ian, ed io ti amo. Resterai per sempre il più bel ricordo che la mia vita ospiterà, perché mai più, mai, proverò ciò che tu m'hai fatto provare. Mai più.
Mi manchi così tanto.
Per sempre tua, la ragazza tutta strana con un brutto nome."
Lasciò il foglio di quaderno a fianco alla lapide, pianse ancora un po', e se ne andò.

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