Lei era così. Nessuno si risparmiava nel definirla stramba, eccentrica, lunatica. E forse un po' lo era, lunatica, dico. Chi lo sa, che non aspettasse l'abisso della notte per osservarla minuziosamente, la luna, e per emularla in ogni sua minuta parvenza. Non potevi mai decifrarla, intendo, né sapere cosa le saltasse in mente. Inutile tentare di prevederla, e ancor più di comprenderla, tanto lo sapevi che avrebbe cambiato idea da un momento all'altro, e allora tanto valeva restare a guardare. Questo sì. A guardarla non rischiavi mai di perdere tempo, e per di più, evitavi di essere una minaccia a quella che sembrava essere una parvenza di discrezione. L'abbandonavamo così, e lei faceva lo stesso, del resto, nelle pagine consunte del suo taccuino nero, taccuino sfortunato, bisogna ammetterlo, ad esser finito nella mani di una tale sciagurata. Le sue erano incandescenti, eccitate nell'atto di scrivere e spesso infervorate in un disegno, nella pedissequa impresa di dar vita a mostruose creazioni. Penna alla mano rigorosamente nera, calcava su quei fogli con maliziosa dedizione, decisa ogni volta a imbrattare d'inchiostro opaco la purezza di quei luoghi, senza il minimo accenno di ripensamento, come se tutto fosse già deciso. Ne venivano fuori terribili volti malinconici, occhi ciclopici e penetranti, immagini demoniche ritratte nell'esattezza di un istante infinito con l'ausilio dei più perversi dettagli. E non osavi chiederle che cosa significassero quelle creature, quei suoi figli, perché lei avrebbe risposto, col suo solito cupo riserbo, che sarebbe stato difficile da comprendere, forse, persino per lei. Chi diamine fa qualcosa senza aver la più pallida idea di quello che sta facendo, mi domandavo. Doveva esserci una spiegazione. Non in quel caso. Con lei tutte le ragioni del mondo andavano a farsi fottere, le spiegazioni più plausibili sfumavano in mere nullità, le curiosità divenivano tanto innocue quanto letali. Probabilmente era la sua Musa, eterea e lattiginosa, a suggerirle certe cose. E così girava per il mondo e negli angoli più angusti di questa vita si ritagliava attimi di inquieta solitudine, dico inquieta perché non sembrava certo serena mentre lo faceva, e quell'ampia fronte corrugata non faceva che dimostrarlo. Certo non faceva solo quello: spesso la si vedeva vacillare, sì dico bene, vacillare nei corridoi, con lo sguardo vitreo e perso nel vuoto. Perfino il suo aspetto sembrava nutrire quell'incostanza continua che la ottenebrava: era solita portare i capelli raccolti alla bell'e meglio, aggrovigliati come un nido di uccelli, tenuti a stento da una bacchetta o dalla matita del caso, indossava abiti sciatti e cadenti, e stivaletti rovinati dal fango le cui suole erano ormai stufe di venir trascinate al suolo. Lei era così, leggera eppure pesante. Mi domando se non fossero quei pensieri a farla sprofondare sempre più giù. Quindi camminava, strascicando i suoi passi, e canticchiava dentro di sé una nenia malinconica che a sentirla pareva davvero provenire dal più remoto antro del suo cervello affollato. Ed ogni qualvolta uno spiraglio di quella porta veniva lasciato aperto, ne fuoriuscivano i pensieri più cavillosi, le frasi più capziose e le domande più ambigue. Cielo, lei poteva permettersi di farci certe domande e noi no. E vi assicuro, vi assicuro che se vi proponessi alcuni dei quesiti pronunciati da quelle stesse labbra rosee e asciutte, non basterebbe un'infinità per trovarvi risposta, non basterebbe a porre rimedio a quei dubbi che le attanagliavano l'animo, fino a oscurarle gli occhi. Erano scene di un imbarazzo straziante quelle, eccome se lo erano, perché non potevi far altro che restare immobile e guardare in basso, come se quei discorsi fossero troppo, troppo, troppo per le nostre menti mediocri; eppure non facevano altro che conferirle una sofisticatezza delle più sublimi che io abbia mai conosciuto. Lei era così.
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Descrizioni
Short StoryLa mia raccolta di persone, cose, luoghi, immagini, volti, pensieri.