first

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tick tack
Le lancette dell'orologio continuavano a muoversi e a provocare questo fastidioso rumore mentre pioveva a dirotto, tuoni e lampi si scagliavano in qualche paese vicino e, nel giro di pochi minuti, sarebbero arrivati anche nella bella New York. La città era desolata e vuota, in circolazione c'erano solo qualche taxi, naturalmente vuoti, in cerca di qualche passeggero da prelevare, come se fossero soldi.
E, come se non bastasse, mio telefono si stava scaricando e il caricatore era troppo lontano dalla mia portata, quindi, a malincuore, decisi si spegnere il mio adorato telefono e disintossicarmi un po', tanto non mi avrebbe fatto di sicuro male. Lo buttai sul mio letto e, successivamente, feci lo stesso con me stessa: il letto traballò un po' a causa delle instabili molle ma, dopo cinque precisi secondi, ritornò fermo.
Portai la mia attenzione sulla parete alla destra del mio letto e, con dolore, osservai le dieci polaroid appese su essa. Tutte le foto mi riportavano ad un momento infelice della mia vita ma non potevo, e non dovevo, staccarle: erano ricordi, anche se tristi, e con essi avrei dovuto convivere. Quindi, cosa cambiava averli anche sulla mia parete oltre che nella mia mente?
Mi soffermai sulla prima foto, quella in alto a destra, e la contemplai: i due volti presenti sulla polaroid erano sorridenti, io e mia madre mostravamo la nostra dentatura, perfetta e bianca come il latte. Le cingevo il collo con il mio braccio sfiorando la sua testa con la mia che, ai tempi, era ancora piccola. Mi chiese lei di fare la foto, implorandomi, come se fosse l'ultimo momento per farne una e così fu.

flashback
14 luglio 2004, Santa Monica.
«Guarda mamma! Guarda come siamo belle!» dissi sventolando la piccola polaroid davanti alla faccia di mia madre, la quale prese la fotografia e lasciò un lieve bacio su essa.
«Devi baciare me, non la foto. Io sono reale» dissi ridacchiando e allargando le braccia per accoglierla tra esse e lei, con una piccola corsa, mi raggiunse, stringendomi forte a lei.
«Ricordati che ti vorrò per sempre bene Scarlett» mi sussurrò tra i miei capelli, per poi lasciarmi un bacio su essi, successivamente lasciando la presa sul mio minuto corpo.
«Ora la mamma deve andare a fare dei lavori su in soffitta, non ti muovere da qui. Capito?» disse con un tono leggermente severo ed io annuii timidamente.
I tacchi di mia madre sbattevano rumorosamente sul vecchio legno delle scale, mentre io giocavo con una pallina rossa vinta a flipper. La lanciavo da una parte all'altra, facendola rimbalzare sulle pareti e sul pavimento, fino a quando non mi scappò dalle mani e andò a finire sul mio ampio balcone, lasciato aperto a causa del caldo che si era creato in casa.
Arrivai al balcone illuminato dal sole e mi chinai per prendere la minuscola pallina che roteava intorno a me. Quando mi rialzai osservai il cielo, pieno di nuvole che contornavano il sole senza coprirlo, ma la mia attenzione si sposto su qualcos altro, o meglio dire, qualcun altro: qualcuno era in piedi sul cornicione di casa, aveva gli occhi chiusi come se dovesse ragionare e i suoi capelli sventolavano per la brezza calda. Provai a mettere a fuoco la figura, anche se in lontananza e, quando essa si slanciò per buttarsi, riconobbi la persona:
«Mamma!» urlai il più forte possibile, ma appena pronunciai la parola, lei cadde nel vuoto per poi colpire il cemento bollente, sotto gli occhi sconvolti dei passanti.
Mi misi in punta di piedi e mi affacciai all'alto balcone, vedendo mia madre stesa per terra, senza vita, e gente, che non sapeva nulla su lei, se ne stava accasciata intorno al suo esile corpo, mentre le sirene dell'ambulanza facevano da sottofondo e delle lacrime scorrevano sul mio viso.

E ancora oggi, dopo 14 anni, non si sa la causa del suo doloroso suicidio.

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