“La cosa migliore è essere soli ma mai veramente soli.”
—
Charles Bukowski
Sigaretta in mano, gambe accavallate, libro posto sulle ginocchia, occhiali da sole che mi fanno da cerchietto e tanti pensieri nella mente. Aspetto il treno, non so per quale ragione, non so per andare dove, so solo che lo stto aspettando e so che non mi importa di dove finirò: ho voglia di andarmene, scappare da tutto e tutti. I treni si fermano davanti a me, gli auto parlanti annunciano quale dei tanti treni sta per partire o per arrivare, io sono seduta sulla panchina ad aspettare il treno che arriverà tra poco al binario 3. Perché proprio quel binario? Non lo so, mi è sempre piaciuto quel numero. Quando all’età di tre anni i miei genitori mi comprarono un cane (non aveva un nome specifico, lo chiamavo un po’ come volevo, da Tobia a Romeo ogni tanto Milo e di tanto in tanto semplicemente ‘Cane’) fui la bambina più contenta del mondo. Era un cane enorme, un pastore tedesco, lo cavalcavo come si cavalcano i cavalli, gli mordevo le orecchie, lo prendevo a pizzicotti, lo bagnavo, gli tiravo la coda ma una cosa che mi ricordo è che quel cane aveva tanta pazienza con me, mai morsa nonostante tutti i dispetti. Ricordo quando una notte i miei litigavano (cosa non rara) e lui venne a sdraiarsi accanto a me e, mentre io piangevo, lui mi leccava le lacrime che rigavano il mio viso, come a dirmi: “Non piangere piccola, io sono qui con te, nessuno ti farà del male. Non piangere, i tuoi occhi blu sono così belli, non farli diventare rossi.” Allora io lo abbracciai e così ci addormentammo. Quando morì fu una tragedia per me: avevo quattordici anni e lui ne aveva undici quando venne investito da un ragazzo in motorino, il giorno dopo papà lo seppellì nel giardino vicino al nostro albero, quello dove io e Cane ci sdraiavamo durante le giornate di autunno. Forse è per questo che mi piace il numero tre: perché è l’età in cui io mi innamorai per la prima volta seppur di un cane.
“E’ in arrivo il treno al binario tre.” Dice l’auto parlante della stazione.
Penso: “Finalmente”.
Mi alzo, metto il libro nello zaino e aspetto che il treno si fermi davanti a me. dove andava? Un mistero. Spengo la sigaretta e la calpesto per bene per essere sicura che sia spenta. Salgo sul treno e mi metto in un posto da sola. Quanta tranquillità. Metto le cuffiette all’orecchio e faccio partire una canzone mentre bestemmio perché ho perduto il segno della pagina che stavo leggendo. Trovata la pagina mi metto a leggere: piedi sul sedile, cuffiette e tanta voglia di andarmene.
«Signorina.» dice qualcuno picchiettandomi la spalla. «Signorina!» Ripete picchiettandomi più forte.
Apro gli occhi.
«Biglietto prego»
Oh cazzo, è il controllore!
Mi metto seduta comoda, lasciando i piedi sul sedile. «Non ce l’ho» Dico con non curanza.
«Bene signorina, mi dia la carta d’identità, intanto alla prossima fermata lei scende. Sono stato chiaro?»
Faccio una smorfia con la faccia, mentre lui scrive. Metto il libro nello zaino e mi alzo per sistemarmi la maglietta. Sono quasi più alta di lui in piedi, un omone basso e pelato, tutto vestito di nero e con degli occhiali. Al dito ha una fede, è di sicuro sposato. Lo vedo ricalcare il mio nome.
«Andrea non è un nome da maschio?» dice lui guardandomi.
«Le sembro un ragazzo?» dico io incrociando le braccia sotto al seno.
«No, ma..»
«No esattamente, quindi non faccia domande stupide, per favore.»
Metto la spallina destra dello zaino sulla spalla, tengo il portafoglio in mano aspettando che il pelato passione facciamo domande stupide alle ragazze che si chiamano Andrea mi dia la carta d'identità.
«Tenga.» mi porge il portafoglio.
Lo prendo senza rispondere.
«Ora deve scendere.»
«Lo so.»
«Cosa farà in una città così, da sola, senza nessuno?»
«Inizio a vivere, caro signore.»
Lo guardo, sorrido e scendo dal treno.