Rise & Shine

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È sempre la paura, si scoprì a realizzare Elena tirandosi a forza fuori dal letto.

Non fu una grande illuminazione, non di quelle che avrebbero cambiato il mondo, ma riempì per un po' il ronzio delle sue fobie che giravano a vuoto, mai contente, mai sazie. Si sentiva soddisfatta per un minuto, contenta di aver messo a posto il caos, un cassetto del comodino infinito del caos reale, ma pur sempre una cosa archiviata e messa via.

Che fanghiglia bipolare che eravamo tutti quanti. Tutti schiavi della paura: la paura del rifiuto, la paura di essere abbandonati, la paura di perdere potere o amore o anche la paura di schiattare o, al contrario, di vivere.

Per esempio, perché stava scendendo a fare colazione un minuto dopo la sveglia? Lei odiava mangiare appena sveglia. Odiava anche parlare così presto, odiava fare qualunque cosa che non fosse una lunga e lenta decompressione semiletargica, finché alzarsi non diventava un'impellenza biologica.

Eppure in quella casa non aveva mai mancato un caffè delle otto.

Perché lo preparava lui (come se lei non si facesse il caffè da sola da vent'anni).

Perché poi andava al lavoro, e non si sarebbero visti fino a sera (ma perché tornava sempre in quella casa con le scale - che lei odiava - e non pretendeva mai che almeno una volta si vedessero da lei?).

Perché era una cosa carina condividere un momento che per lui era importante (come faceva a essere importante il latte coi biscotti per un uomo adulto? Cosa diceva di lui e di lei che gli stava appresso? Amare un imperfetto ti rende imperfetta, lo sai).

Perché una volta le aveva detto che appena sveglia era bellissima e voleva essere pensarsi e vedersi così ogni volta, perché al piano di sopra faceva un freddo cane senza di lui nel letto, perché voleva pensare di avere qualche tradizione con lui... ma pur piazzando a ogni scalino un perché da manuale, Elena arrivava al piano di sotto con un sorriso di legno e uno scazzo infinito.

Si sedeva di traverso, stava scomoda, biascicava, masticava controvoglia, e comunque al terzo sorso di quel latte di soia che sapeva di cartone, Max era già in ascensore con la borsa della palestra del giorno prima, sei minuti di ritardo cronico e il bacio di saluto puntualmente rimandato alla sera con tante scuse per averlo dimenticato al mattino. 

Poi le restava tutta la mattina e il pomeriggio per gironzolare per la casa da sola domandandosi per nove ore come poteva passare la giornata, lavoricchiando con scarsi risultati, e impazzendo nell'ultima mezz'ora pettinandosi e truccandosi di corsa, maledicendo l'orologio sempre rotto della cucina.

Ecco, anche questa cosa la infastidiva a morte di sé stessa.

Perché si comportava sempre così? Perché si teneva per lei quello strazio quotidiano - chissà se c'era una parola opposta alla joie de vivre - e appena lui rientrava, lei si precipitava a indossare la faccia del come-sono-contenta-di-esistere-per-te e la teneva su fino all'ora della buonanotte?

Ogni giorno si rinchiudeva in una scatola da cui riusciva fuori alla sera come un pupazzo a molla, sempre allegro e partecipe, ma dentro quella scatola c'erano solo insensatezza e solitudine, angoscia e malmostosità, e nei giorni buoni solo noia.

E ogni sera si rimetteva nella scatola rassegnata, rimandando a un ipotetico domani il momento in cui avrebbe cercato e magari trovato la risposta a quel malumore... e se e quando avesse scoperto che era colpa di Max gliel'avrebbe detto, o no, magari le cose sarebbero cambiate, qualcosa si sarebbe aggiustato, e il tasto magico del "tutto va bene ora" sarebbe stato premuto, messo in moto, un deus ex machina qualunque, che però tardava ad arrivare.

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