Goodbye

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Un altro giorno inizia. Un altro fottutissimo giorno. Dio, sono già le sei! Mi alzo di malavoglia e vado a fare la colazione. Due biscotti e un bicchiere d'acqua. Tutto come ogni giorno. Devo anche stare attenta a non fare troppo rumore. Vado in bagno, mi lavo i denti e mi guardo allo specchio. Come immaginavo, sono sempre la stessa. Gli stessi capelli orrendi. Gli stessi occhi spenti. Le stesse occhiaie. La stessa pelle bianca cadaverica. Lo stesso corpo troppo esile. Sarebbe un miracolo, ma che male c'è nel continuare ad illudersi? Non ho neanche la voglia di pettinare la massa di capelli che mi ritrovo. Prendo un elastico e li lego in uno chignon disordinato. Tanto "va di moda". Come se una semplice acconciatura aiuterebbe la mia autostima. Mi sbrigo a vestirmi. T-shirt, jeans e felpa grigia. Grigia come il mio umore. Grigia come la mia vita. Ho perso la voglia di scervellarmi sui vestiti. Tanto nessuno li ha mai notati. La gente giudica male qualsiasi cosa, ha sempre da lamentarsi. Metto le scarpe, sempre quelle da anni. Ormai ci sono affezionata. Prendo lo zaino e esco di casa. Come sempre sto attenta a chiudere la porta delicatamente. Mio padre ha il sonno leggero. Mi preparo al quasi chilometro di strada che mi divide dalla fermata dell'autobus. Che bello avere una casa lontana chilometri dal centro. Meraviglioso! Metto le cuffie, almeno avrò qualcosa che cerca di mitigare il mal di testa che già mi fa scoppiare. Almeno il pianoforte un po' mi rilassa. Il mio essere distratta, però, non aiuta mai. Una macchina quasi mi stava per investire. Il conducente mi ha anche mandata affanculo. Poteva prendermi sotto, tanto valeva lo stesso. Cammino e mi guardo intorno. I grandi palazzi sono rari così in periferia, mi danno un dannato senso di solitudine. Basta sorpassare il cartello che ti da il "benvenuto" che i palazzi magicamente appaiono nella loro immensità. Mi fanno sentire così inutile e minuscola. Da lontano riesco a vedere l'autobus che è appena arrivato. Mi metto a correre. Spero di non perderlo. Il prossimo passerebbe tra una mezz'ora e perderei la prima ora di scuola. Corro a perdifiato e l'autista mi nota dallo specchietto. Proprio quando stava per ripartire le porte si riaprono e mi lascia salire. Mi giro e noto che l'unico posto libero è accanto a un ragazzo che mi guarda male e appoggia il suo zaino sul sedile accanto al suo. Faccio un piccolo sospiro e resto in piedi. Devo solo tenermi al palo per i trenta minuti in cui l'autobus arriverà a destinazione. Sento delle risatine alle mie spalle. Come sempre abbasso lo sguardo. L'ultima volta che ho provato a fare la coraggiosa tutti si sono messi contro di me. Ovviamente poi l'autista mi fece scendere, causavo troppo casino. Non ci provo più a oppormi. Tanto cosa migliorerebbe? Nella corsa ho perso un cuscinetto delle cuffie. Fantastico! Ora sono anche scomode. Ormai la mia testa è diventata una discoteca con ingresso gratuito. Il mal di testa mi fa quasi piangere. Non devo farmi vedere ancor più debole di quel che sono. Faccio respiri profondi e conto fino a dieci nella mia mente.
L'autista frena all'improvviso e io scivolo a terra. Una risata si alza dall'intero autobus. Vedo che siamo arrivati alla mia fermata, così mi avvio all'uscita. Finalmente scendo. Ora mi aspetta la scuola. Mi preparo mentalmente. Tanto so che come andrà. Tanto so di essere debole. Tanto so di essere sola. In questi casi non riesco a illudermi. L'unica professoressa che quasi mi stava simpatica si è dovuta operare ad una gamba. Fantastico! Vado verso la mia classe. Sento delle risate. Ma ancora?! Cos'ho di così divertente? Ditemelo che io non lo capisco. Mi giro a guardare la ragazza perfetta che mi guarda con disprezzo. Solo un istante di distrazione e inciampo su qualcosa. Waw! Due facciate a terra lo stesso giorno! Chissà, c'è il detto che dice "non c'è due senza tre". La mia intera vita: ti sono già successe due cose brutte, aspettati anche la terza. Sento in lontananza, in mezzo alle risate, qualcuno gridare che starei meglio con un po' di trucco. C'è anche qualcuno che gli risponde che servirebbe un miracolo. Cerco di ignorarli e vado in aula. Le ore passano lente. Come sempre. Mi rifugio in bagno. Ho tanta voglia di piangere. Ma non lo farò. Prendo una piccola pasticca contro il mal di testa e bevo dell'acqua dal lavandino. Ovviamente, sono così goffa che mi bagno anche. Vedo una ragazza avvicinarsi e cerco di allontanarmi. Vado a sbattere sull'altro lavandino. Lei mi guarda e ride, per poi entrare nel bagno dietro di me.
All'ora di pranzo mi ricordo che non ho i soldi per pagarmi il solito panino. Così mi siedo in un tavolo da sola. Stavolta non è come sempre. Di solito almeno mangio. Ora invece mi limito a leggere un libro. Ultimamente ho perso ogni emozione che provavo leggendo. Mi sento quasi paralizzata da ciò. Leggere era il mio passatempo preferito. Ora sono così vuota che non provo nulla. Dei ragazzi dell'ultimo anno mi si avvicinano. Si divertono a mettere in discussione che io mangi abbastanza. Mi chiedono se i miei mi danno da mangiare. Mi danno dell'inutile insensibile solo perché non mi offendo. Quanto si sbagliano. Sento un milione di lame che fanno pressione fuori e dentro di me ad ogni mio respiro. Peccato che non riesca più a esternare alcuna emozione. E loro si arrabbiano per questo. Lanciano il mio libro. Mi alzo nel tentativo di andarlo a prendere. Mi becco uno sgambetto. L'equilibrio mi abbandona e ricado a terra. Mi rialzo a fatica. La pasticca non è servita a nulla. Una lacrima tenta di uscire di nuovo, ma di nuovo la ricaccio indietro. Non mostrerò mai a nessuno le mie ferite. Sono troppo abituata a leccarle quando sono sola. Magari quelle piccole ferite si richiuderanno, ma sento un piccolo pezzo di me fuggire via ogni volta. Fino a lasciarmi con solo piccoli stracci di me stessa. Dio, sono così patetica! Riesco ad allontanarmi. Posso dire finalmente? Ho paura a farlo.
Vedo una ragazza avvicinarsi con cautela a me. Riesco a percepire la pena che prova con un singolo sguardo. Ha raccolto il mio libro. Fuggo via senza neanche rivolgerle parola. Non lo rivoglio indietro.
Non mi prendo più in giro. Ormai la paura ha sostituito la mia ombra. Mi sento così fredda, così estranea, così diversa dalla bambina spensierata che ero. Mi mancano quei momenti. Mi manca quando non capivo la solitudine. Quando non sapevo neanche cosa fosse. L'immaginazione mi aveva sempre aiutato a rialzarmi. Ora anche lei mi ha abbandonato. Anche lei si vergogna di me. È andata a far compagnia alla mia autostima, alla mia fede e alla speranza che avevo. Anche gli studenti si sono annoiati nel darmi fastidio. Lasciano che mi allontani. Mi sono stufata della scuola. Me ne frego delle lezioni pomeridiane. Esco e vado a prendere l'autobus. I posti sono tutti liberi a parte qualcuno. I passeggeri si dividono in adulti che mi guardano male per come sono conciata e vecchietti che mi guardano con sguardo pieno di compassione. Odio vederla nei loro occhi. Odio sentirmi così. Dopo la mezz'ora di pullman e l'altra di camminata arrivo a casa. Quasi mi trascino. Metto la chiave nella serratura e la giro. Entro e noto subito che in cucina c'è la mamma. La saluto dicendo che non sto bene. Lei neanche mi guarda e fa un cenno col capo. È impegnata col computer. Con il suo lavoro. Non devo disturbarla. Vado in camera mia. Mi fermo davanti allo specchio. Ma chi l'ha messo in camera mia uno specchio?! C'è il serio rischio che lo spacchi. Se solo non facesse così tanto rumore. Sono ancora più orribile di quello che ero stamattina. Cadendo a mensa ho sbattuto la guancia sul tavolo e ora ho un livido. Non ho neanche il trucco per coprirlo. Mi scappa una lacrima davanti a quello spettacolo pietoso. Non riesco a trattenermi e scoppio in lacrime. Fantastico, sono diventata una fontana vivente. Crollo a terra nel mio pianto silenzioso. Perché sono così? In fondo so che è tutta colpa mia. Colpa del mio essere diversa. Del mio non avere nulla di interessante. Sono io che annoio tutti, persino i miei genitori. Sono io che mi sono chiusa in questa dannatissima scatola. Ora non posso lamentarmi se mi manca l'ossigeno. No posso neanche osare respirarlo o lo contagerei con la mia inutilità.
È quasi ora di cena e a casa è arrivato anche papà. L'ho sentito mentre sbatteva la porta come solo lui sa fare. È sempre arrabbiato. Non so nemmeno per cosa. Oggi però forse non lo è. Sento che la mamma ride. Poi sento i loro passi avvicinarsi. Neanche bussano e entrano. Io intanto mi sono alzata e mi sono seduta sul letto. Non mi preoccupo, mi hanno vista in momenti peggiori. Si limitano a dirmi poche parole. Che loro cenano ceneranno al ristorante. Ok, mi va bene. Invece che sentirli discutere e arrabbiarsi, fisserò il muro bianco. Quel muro è così asettico. Mi mette tristezza.
Neanche aspettano la mia risposta che se ne vanno. Istintivamente scoppio di nuovo a piangere. Se mi hanno dato questa vita vuol dire che me la merito, no? Magari era una prova. E io, ovviamente, l'ho fallita. Come sempre. Sono stanca. E non ho nemmeno fame. Non ho voglia di fare nulla. Ormai non l'ho più nemmeno per vivere, o meglio sopravvivere.
E mi ritorna in mente un'idea. Un'idea che troppo spesso si è fatta vedere.
Per la prima volta sento un pizzico di coraggio dentro di me. Mi alzo dal mio letto e vado in bagno. Apro lo sportello del mobiletto che contiene le medicine. A parte le aspirine per il mal di testa, c'è un sacco di roba. Noto degli antidolorifici, calmanti, tachipirine e dei sonniferi e altro. Magari la mamma ha avuto problemi di insonnia. Tanto lei ha avuto tutti i tipi di problemi a questo mondo. Cosa ne so io della vita. Comincio a leggere il retro delle varie scatolette. Chissà cosa succederebbe se le prendessi tutte insieme. Ricordo che papà ha dei liquori in soggiorno. È il suo modo di passare le serate che non vanno a finire come vorrebbe. Se la mente non m'inganna alcool e medicine non vanno d'accordo. Riempio la mano tra calmanti, sonniferi e antidolorifici. Ho le mani stranamente lunghe e ingoiare tutte le pillole mi rimarrà molto difficile. Butto giù tutto con l'alcool. Mi brucia la gola da morire. Inizialmente mi viene da vomitare. É una sensazione orrenda, ma magari durerà poco. Sto solo cercando la pace, dopotutto so che farei un bene a tutti.
Mi stendo a letto con la testa che comincia a farsi sentire pesante. Chissà, andrei in paradiso o all'inferno? Oppure solo all'ospedale? Io ci ho provato.
La vista comincia ad appannarsi. Chiudo gli occhi. Il nero non è mai stato così piacevole. Sento che sto affondando. Mi sento ancora più vuota del solito, completamente vuota, ma estremamente pesante. E stranamente, è una bella sensazione. Non saprei se chiedere scusa o ringraziare. Nel dubbio mando tutti affanculo. È una sensazione strana. Non sento più neanche la lingua. Tutto il corpo si è addormentato. E il cervello lo sta seguendo.
Addio

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