Voce Nova

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La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.

Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando, pria ch'io ne favelli.

Dante terminò di recitare la terzina calcando con passione sull'ultima parola, un po' come era solito fare il suo vecchio professore di italiano del liceo quando declamava le amate opere di letteratura.
-Dannazione!- gridò Dante, lanciando la Commedia sulla scrivania -Dannazione!- ripetè, sferrando un calcio al letto -Quando imparerò questo maledetto canto sarà troppo tardi!- terminò, osservando nello specchio il suo riflesso nervoso e dai capelli arruffati.
Sconsolato, si sedette alla scrivania e si prese la testa tra le mani.

Erano infatti giorni che Dante camminava avanti e indietro nella sua camera mentre tentava di memorizzare il ventitreesimo canto dell'Inferno della Divina Commedia, con il libro in mano, la voce profonda e cadenzata che recitava gli antichi versi, e con lo specchio al posto del pubblico, che invece degli applausi gli rimandava l'immagine di un giovane dal gesticolare deciso e l'espressione ardente di passione. Ma nulla da fare, la tragica storia del conte Ugolino, condannato al gelo eterno per aver mangiato i propri figli, si ostinava a non entrargli in testa.
-Mi è rimasta sullo stomaco, non mi va giù- si divertiva a raccontare Dante con un sorriso stanco, sfoggiando il suo pessimo umorismo più che agli altri, a se stesso. Sono in pochi a capire certe battute.
Purtroppo, né l'umorismo né l'ennesima visione dell'intera serie di film e telefilm su Hannibal Lecter ("Sempre di cannibali si tratta" si giustificava fra sé e sé) erano utili a qualcosa, e non c'era da meravigliarsi. E il fatto di avere come omonimo proprio Alighieri non faceva altro che aggiungere pressione.
Chiunque l'avesse visto lì, chiuso in quella stanza in giugno inoltrato, quando tutti erano troppo impegnati a godersi le vacanze, mentre recitava l'inferno dantesco, avrebbe sicuramente dubitato della sanità mentale del ragazzo. Dante, in realtà, non aveva nessun problema, almeno non mentale.
Dante, invece delle vacanze, del mare e della piscina, preferiva altro: la recitazione.
Tutta la fatica che stava facendo era per il suo primo spettacolo da solo.

Dante sollevò la testa dalle mani e osservò la Commedia; allungò la destra per afferrarla, la aprì, dove aveva lasciato il segno con un vecchio biglietto di uno spettacolo, poi si alzò e si distese sul letto, fissando le parole scritte dal suo omonimo più di settecento anni prima.
Lasciò scorrere gli occhi velocemente per tutto il canto, avanti e indietro per quelle terzine piene di dolore e sofferenza, fino a soffermarsi su una parola: favelli.

"Favellare" lo aveva sempre affascinato come parola. Si ricordava gli ultimi anni di liceo e le interrogazioni di letteratura greca, in cui veniva sempre ripreso perché diceva che i critici letterari, appunto, "favellavano inconsapevolmente" sulle opere degli antichi, cosa che ovviamente piaceva poco alla professoressa. Ma per Dante, chi per lavoro commentava opere inventando interpretazioni  astruse e scrivendo in modo contorto, non poteva fare altro che quello. Ciarlatani.

Eppure non era solo quello il motivo per cui Dante amava quella parola. Le ragioni andavano indietro di anni, fino a un particolare giorno di aprile in cui il padre, stufo delle continue lamentele dell'allora dodicenne Dante che non voleva fare i compiti, gli aveva detto che, se andava avanti favellando così, non sarebbe arrivato da nessuna parte.
-Favel-cosa? Da dove ti spuntano fuori certe robe?- aveva chiesto il ragazzo, furibondo per non poter rimanere sul divano a guardare il suo programma preferito in televisione.
-Favellare. Vuol dire parlare, discorrere-
-E tu come lo sai?- aveva continuato Dante, nei cui occhi si notava un bagliore di curiosità.
-Se te lo spiego, poi prometti di fare i compiti?- aveva proposto il padre, ormai esausto per il continuo urlare.
Dante aveva annuito vigorosamente e aveva seguito il padre fino alla poltrona su cui questi stava prima leggendo e su cui era appoggiato un libro dalla copertina consunta.
Il padre lo aveva preso e gli aveva mostrato il suo contenuto: un testo che sembrava una poesia, diviso in tante piccole strofe. Poi, gli aveva indicato una parola, favelli.
-Vedi che non mi invento nulla?-
-Mh-
Dante aveva afferrato il libro ed era corso in camera sua.
-Ehi, Dante! Ma che fai? E i compiti?-
Il padre era corso verso la sua camera e
aveva visto il figlio immerso nella lettura.
Dante che leggeva Dante.
Doveva quasi fare una foto.

Un mese dopo, il padre aveva portato Dante ad uno spettacolo in un teatro vicino. Una lettura di vari canti scelti della Commedia.
Dante era rimasto talmente affascinato dalla bravura dell'attore, che era riuscito per più di un'ora a raccontare il viaggio di Alighieri fra dannati e peccatori, da immedesimarsi lui stesso nel protagonista.
Come si suol dire, "nomen omen".

Dante trattenne bruscamente il respiro e aprì gli occhi. Era lì dove era nato tutto. Era lì dove era iniziato il suo amore per la letteratura, la lettura e , soprattutto, la recitazione. Infatti, quello spettacolo era stato seguito da molti altri, che non avevano fatto altro che aumentare il suo desiderio di entrare in quel mondo, se non solo come attore, anche come doppiatore. Dare voce a chi non la aveva era un po' ciò che era successo a lui, quando Dante gli aveva dato ciò che gli era sempre mancato per riuscire a trovare ed esprimere ciò che non sapeva di essere.

Si alzò dal letto e guardò con intensità il libro che aveva davanti a sé. Dopo nove anni, non era cambiato di una virgola. Okay, le pagine erano pregne di annotazioni e passione, ma tutto sommato lo aveva mantenuto bene.
Guardò il segnalibro: era proprio il biglietto di quello spettacolo di nove anni prima.
Rivolse lo sguardo allo specchio e vide nei propri occhi una determinazione che non si sarebbe mai aspettato di ritrovare in se stesso.
Questo era il suo primo spettacolo, e sarebbe andato bene.
Dante avrebbe interpretato Dante.
Di nome e di fatto.

Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d'alcun riposo,

sù, el primo e io secondo,
tanto ch'i' vidi de le cose belle
che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.

E quindi uscimmo a riveder le stelle.

Dante chiuse gli occhi, oscurando le tende rosse che si chiudevano davanti a lui, e sentì gli applausi.

(Partecipa "favellando" alla meravigliosa iniziativa di AdottaUnaParola , sperando di non essere troppo in ritardo😉)

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