Le dolci parole
ーmentre ti accarezzo
ーーi capelli,
ーーーsono più vuote
ーーーーdel tuo cuore.La mina della matita picchiettava sul foglio sguarcito, spuntandosi lievemente ad ogni tocco con la superficie, perdendo piano piano la grafite lucida e provocando, a quella coperta e nascosta, piccoli traumi irreversibili. La luce della lampadina illuminava il foglio che recitava una canzone d'amore in prosa e, alcune volte, in rima; parole di conforto e verità si confondevano e mischiavano, rilasciando profumo di limone e zenzero, un po' come la tazza di tè fumante poco più in là sulla scrivania. Il ticchettio dell'orologio - le cui lancette continuavano a girare, da quando si sedeva fino a quando si alzava, in modo insistente - più rumoroso che mai a segnare l'ora, giaceva sulla parete biancastra sulla sinistra del mobile, mentre la televisione, poggiata su un piccolo mobiletto, stava a raccogliere la polvere da anni. Le dita intrecciate a tirare delle fibre verdastre e secche, nel tentativo, forse, di far uscire una parola o una frase bisognosa. E poi, colpo di genio! Il porta matite fu rovesciato di fretta, alla ricerca disperata di una gomma per cancellare le parole scomode e caotiche, mentre le ruote della sedia nera ed imbottita venivano obbligate a farla allontanare dalla scrivania in legno massiccio, il cui colore contrastava prepotentemente quello del resto dell'arredo. «È finita» un sospiro sollevato fuoriuscì dal giovane, che fino ad allora era rimasto cupamente piegato sulla tavola a scrivere; si stiracchiò la schiena, la quale rilasciò rumori poco rassicuranti di cui, però, non si curò. Strofinò le mani tra loro, un po' per soddisfazione e un po' per il freddo che regnava nella sua casa in Daegu. Si alzò, prendendo la tazza tra le mani, e sentì il lieve vento di novembre - entrato dalla porta finestra - scompigliargli i capelli con un funesto bacio. Le gambe magre e il torace nudo venivano illuminati dalla Luna pallida e priva di luce propria, mentre lentamente si avvicinava al terrazzo; le tende bianche polverose danzavano spinte dal soffio di Feng Shi, divenendo trasparenti e fugaci. Lasciò la tazza sul piccolo tavolino tondeggiante, in ferro battuto e un po' arrugginito, mentre essa continuava a rilasciare calore ancora per poco; in cambio, raccolse il pacchetto in cartoncino bianco e rosso, estraendone del tabacco confezionato e, raccolto anche il fedele accendino metallico, si beò del fumo che gli innondò la pelle del viso e i neri polmoni. Poggiò le braccia incrociate sulla ringhiera, osservando come il centro stesso di Daegu fosse morto a quell'ora tarda di notte. Muoveva la sigaretta su e giù con le labbra, a ritmo di quella pioggia che lentamente aveva iniziato a baciargli le spalle e la nuca; l'asfalto ribolliva il calore che, nonostante la stagione fredda, era riuscito ad catturare, riscaldando la pelle nuda dell'unica persona sveglia in città, oltre a coloro che sono in servizio. Aspirò il più possibile, rilasciando la nuvola bianca oltre il terrazzo, facendola cadere colpita dalle gocce di pioggia fino al suolo. Chiuse gli occhi, e si innamorò ancora una volta del tempo in cui non aveva preoccupazioni e la mente vuota, come in quel notturno momento; e si innamorò dell'acqua che gli cadeva sul viso e poi sul collo, finendo sulla pelle, arrivando alle ossa e rinfrescandole dalla pressione che la sua persona faceva su esse, non badando al fatto che, magari, il giorno dopo avrebbe avuto l'influenza. Non gli importava granché. Ma la pioggia era tanto delicata che si sentiva come quando era sotto la doccia, e lasciò così la mente vagare tra i ricordi della sua infanzia nella stessa Daegu, passata a mentire per sopravvivere in una famiglia di tradizionalisti morbosi ed insolenti. Sua madre, donna di poca cultura ma di forte tenacia e astuzia, che aveva avuto più mariti che Natali, lo aveva educato alla filosofia che nessuno mai si sarebbe preoccupato di lui. «Piuttosto che parlare, taci il provato, a costo di logorarti l'anima», gli canzonava quando l'ennesimo uomo la lasciava con gli abiti sguarciti la sera, quando tornava a casa e la trovava sul divano, stesa, a fumare, con gli occhi rossi e il viso scavato, i capelli in disordine e le mani tremanti. Ed era ovvio che quel vizio lo avesse ereditato tanto bene. «La mamma sta bene, YoonGi, era solo un disgraziato» gli diceva, e Min YoonGi non poteva fare a meno di credere all'unica figura adulta che aveva, perché il padre, probabilmente, era uno di quei tanti disgraziati che se ne erano andati, ma non lo aveva mai saputo per certo. YoonGi si era limitato a credere che la madre, in realtà, fosse una brava donna, la quale comunque gli aveva dato un'istruzione di qualità, con il massimo che poteva dargli. Come l'amore che gli aveva dato, scarno, freddo, ma pure sempre amore era; o almeno, così si ripeté YoonGi di fronte alla sua bara in legno lucido, durante il suo funerale. Pioveva anche quel giorno, e lo ricordava bene, a pochi mesi dal suo compleanno, in ottobre. Ricordava bene il vuoto nella Chiesa, sulle panche, fuori nel viale. Nessuno. Tranne lui, tranne YoonGi. Vide sua madre andarsene via per sempre, come in adolescenza precoce aveva sperato facesse quando usciva dalla porta di casa con abiti succinti e il trucco abbondante, dopo avergli lasciato un bacio rosso sulla fronte e un «ti voglio bene» nella sua immaginazione. E adesso, neppure se la ricordava la sua voce, che forse a lui non si era mai rivolta in modo dolce. Ma riaprì gli occhi, perché una che sicuramente era delicata con lui, lo richiamò nel presente, aiutata dal tocco di due mani sulla sua schiena; «hyung, cosa fai qua fuori? Ti prenderai un accidente!» urlò appena Jung HoSeok, cingendogli i fianchi ed indietreggiando con lui. «Sto bene Hobi» sussurrò YoonGi, accarezzando il dorso della mano destra dell'altro, «sto benissimo, adesso» sorrise appena, privo di tranquillità ma, allo stesso tempo, ne era pieno. «Torna dentro, sei fradicio, domani avrai il raffreddore» disse il castano preoccupato, prendendogli la mano, facendolo girare verso di sé; «non trovi sia bella, HoSeok?» mormorò il maggiore, volgendo la testa di lato, alzata verso il cielo, «cosa hyung?»
«La pioggia. Sai, mi ricorda tanto lei» disse, e HoSeok non poté fare a meno di abbracciarlo; «va tutto bene, hyung» cercò di rincuorarlo, «lo so» ma non ce n'era bisogno.