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Le luci entrano nella mia camera tetra e mi provocano un forte bruciore agli occhi.
Luce.
Delle stupide onde elettromagnetiche che si propagano nel vuoto.
Energia, calore.
A volte penso che tutto ciò in cui ho creduto e ho sperato per tutti questi anni siano fesserie.
Però poi mi basta lavorare, mi basta vedere quello che so fare davvero e dimentico tutti i dubbi e le idee che avevo.
Erano appena le quattro del mattino ed era ancora buio.
Il rumore dei motori dell'auto che passavano di rado rimbombavano nelle mie orecchie.
Ero sdraiato sul letto, mentre il caldo estivo mi avvolgeva facendomi a malapena respirare dall'afa.
Decisi di alzarmi, e mi affacciai alla finestra.
Niente.
Non c'era nulla da guardare.
Niente di interessante.
Tutto così inutile.

Mi alzai e andai a fare una doccia, congelata.
Sentii le tempie ghiacciarsi ma non me ne curai, era uno shock passeggero.
Appena finito mi asciugai i capelli e li aggiustai in un ciuffo laterale che mi ricadeva sulla fronte.
Indossai una camicia bianca, una giacca nera e dei pantaloni del medesimo colore.
Presi le numerose analisi, note e appunti e bevetti un bicchiere di vodka ghiacciata, per svegliarmi ulteriormente da quello stato di trance in cui mi trovo ogni notte.
Entro nel mio studio e mi siedo dietro la scrivania, abbottonandomi il bottone della giacca.
Accolgo pazienti o genitori che parlano dei "problemi" dei propri figli, accolgo di tutto.
Non etichetto le persone, mi piace semplicemente aiutarle e c'ho messo una vita per riuscire a farlo.
Ora è il mio momento, e cerco, anche a denti stretti, di aiutare tutta la mia gente.
Riesco a sentirmi bene quando riesco a far stare bene loro.

Finisco tutti gli incontri passate le dieci della sera e misi in ordine la mia scrivania, mettendo ogni appunto al loro posto ed ordinandoli in ordine alfabetico.
Scrivo gli ultimi nomi dei pazienti sulle apposite note e le chiusi a chiave nei cassetti.
Spengo la luce ed anche il Mac, posando tutto al proprio posto.
Prendo degli appunti da terminare e chiudo a chiave lo studio, dirigendomi verso la mia auto.
Entro in quest'ultima e guardo la strada distrattamente, pensando soltanto a voler tornare finalmente a casa.
Domani sarebbe stata la mia giornata libera, e sono piuttosto contento di come vada il mio lavoro.

Non faccio in tempo a prendere le chiavi che squilla il mio cellulare.
Impugno quest'ultimo e leggo il numero: non lo conoscevo.
Rispondo.
«Pronto?»
«Abbiamo bisogno di lei, signor Tomlinson.
Potrebbe raggiungerci domani alla clinica di Londra?»
Era una voce femminile, una commessa probabilmente, e sicuramente un medico le aveva ordinato di chiamarmi.
Non potevo dire di no, era quasi retorica la risposta.
Scrollo le spalle e con l'altra mano prendo le chiavi, aprendo la porta di casa.
Aspetto qualche minuto prima di rispondere, leccandomi le labbra.
«Certo, ci vediamo domani.»
Dico sbrigativamente, con il mio solito tono rauco e fermo.
Dall'altra parte mi ringraziò, ma concludo velocemente la chiamata.
Chiudo la porta dietro le mie spalle ed inspiro profondamente, togliendomi la giacca, la camicia e i pantaloni.
Passo una mano sui miei tatuaggi che spiccavano sui bicipiti e mi sdraio sul letto, cercando di prendere sonno.
Sapevo che domani sarebbe stata una giornata piuttosto pesante.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 31, 2018 ⏰

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