Parte 6

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Ci sedemmo sul letto dove avevamo consumato uno strano atto sessuale.

"Voglio che tu ti senta a tuo agio".

"Sul serio?" risposi, incapace di celare un isterico sarcasmo.

"Quello che sto per dirti io non lo dico mai a nessuno, onestamente. Credo di non esagerare quando dico che di storielle da una notte ne ho avute un centinaio. Però neanche una volta sono mai sceso così in confidenza".

"Che onore".

"Non ti biasimo per quello che provi. E' normale, immagino".

Mi preparai ad ascoltarlo. Le mie gambe si agitavano ancora.

"Il fatto è questo: io ho un figlio".

Riuscì a cogliermi di sorpresa.

"Si chiama... ah, non credo che ti interessi. Ha dodici anni, ed è un bambino intelligente e molto simpatico. Gli voglio un mondo di bene". Si prese una breve pausa, e proseguì. "Io e mia moglie lo abbiamo avuto per sbaglio. E' stato un "incidente di percorso, diciamo". Ed ero pronto a considerare la mia vita finita, perché non mi sarei mai più divertito, non avremmo mai più fatto avventure, vissuto secondo i nostri ritmi e il nostro istinto; siamo sempre stati una coppia di persona che sperimenta, che rischia, che si apre a nuovi orizzonti e odia la routine. Poi però è successo un miracolo. Da quando è nato, io mi sono reso conto sempre di più di quanto questa vita fosse perfetta per me e mia moglie. Il mio lavoro in azienda è iniziato ad andare a gonfie vele, abbiamo comprato questa casa e ci siamo occupati di viziare nostro figlio, e dargli tutto quello che potevamo dargli. E io mi sentivo felice. Ci sentivamo felici. Era come soddisfare un bisogno che non sapevamo di avere. Io mi alzavo la mattina, mi occupavo di lui, andavo al lavoro e vivevo da padre di famiglia, e ho aspettato per tutto quel tempo di sentirmi nauseato, o stufo, o depresso. Ma non è mai successo. Tutto era incredibilmente e profondamente perfetto".

Rimasi in ascolto, tentando di immaginare dove quell'uomo stesse andando a parare.

"Un giorno mia moglie è morta in un'incidente. Da quel momento la mia vita è cambiata. Dopo il periodo di dolore iniziale, mi sono reso conto che ricercare il piacere e la felicità e proteggere mio figlio dal dolore erano due cose separate, che avevo bisogno di fare allo stesso modo".

"In che senso?".

"Tu puoi immaginare cosa voglio dire quando dico che cerco piacere, non è così? Non è per un sollievo temporaneo che frequenti i bar, in attesa di incontrare un uomo con le tue stesse intenzioni?".

Deglutii.

"Ti sto chiedendo il motivo di quello che ho appena visto: quel corridoio, le due donne... Spiegami qualcosa!".

"Va bene, va bene, ci stavo arrivando". Un altro, piccolo istante di silenzio. "Io ritengo che bisogna proteggere i nostri figli da certe verità. Una di queste verità è che il mondo non ha senso, che l'universo è un'incidentale unione di diversi avvenimenti, e che se ne infischia della felicità dei singoli. Questa verità, io l'ho imparata nel momento in cui il corpo di mia moglie è finito contro una macchina in movimento".

Si fermò, i suoi occhi divennero lucidi.

Provai un inatteso senso di empatia verso di lui.

"Come l'ha presa tuo figlio?".

"E' questo il punto". L'uomo si destò dalla sua tristezza. "Lui non lo sa".

Per un attimo feci fatica a rielaborare quelle parole.

"Tuo figlio non sa che sua madre è morta".

"No" rispose lui.

"Ma come fai a nasconderlo? E' assurdo... come fa quando non la vede?".

E improvvisamente la risposta mi sovvenne immediatamente. Due donne. Vestite uguali. Nomi di donne, in determinati orari. Mentre il mio cervello elaborava una risposta a quegli enigmi, una risposta ben più assurda di quanto mi sarei mai aspettato, lui mi guardava con l'espressione di chi capiva i miei pensieri, e se ne assumeva le responsabilità.

"Quelle donne fanno... finta di essere tua moglie?".

Lo sconosciuto annuì.

"E quelle frecce con quei nomi e quelle ore indicano i turni?".

"Non soltanto quello. Anche il loro percorso: ogni freccia indica anche la stanza da cui devono apparire in modo da non destare sospetti. Sono state scritte su questo corridoio per poter permettere loro di allenarsi; è come se fosse una complicata coreografia".

"Ma... non ha senso... sono diverse, come fa a non distinguerle?".

"Dipende tutto dall'angolazione, dall'illuminazione della stanza".

"E quando escono fuori? Quando lo accompagnano a scuola, per esempio".

Lo sconosciuto divenne cupo d'un tratto.

"Proteggere i nostri figli..." rispose, criptico. "...vuol dire anche proteggerli dal mondo esterno, se quello è solo causa di dolore".

Restai a bocca aperta.

"Mi stai dicendo che lui non esce mai di casa?".

"No. O meglio, a volte crede di uscire. Vedi, io lavoro nel settore di elettrotecnica, e so che sono stati fatti molti progressi nel campo audiovisivo; illusioni ottiche, ologrammi, quella roba lì. Io lavoro per una società di nome T. i. T., che si occupa proprio di questo: perfezionare un sistema di precisa simulazione della realtà. E' già stata perfezionata in molti settori".

"Io non riesco a crederci".

"Mi stai giudicando?" chiese, di colpo sulla difensiva.

"Tu mi stai dicendo che chiudi un bambino di dodici anni in casa, facendogli credere che la sua vita è perfetta e assumi controfigure per interpretare sua madre?". Non riuscivo a credere di stare dicendo quelle parole, in quell'ordine; era tutto così assurdo. "E quando cresce? Hai intenzione di rinchiuderlo a vita in una prigione di illusioni ottiche?".

"Io non...". Si coprì il viso con le mani, stancamente. "Non è un discorso che ho ancora affrontato. Ti assicuro che il solo pensiero mi causa stress, e sensi di colpa".

"Oh, mi dispiace!". Di nuovo, quel sarcasmo.

"Pensi di potermi giudicare? Sai cosa vuol dire crescere un figlio?".

Che stronzata, pensai, sentendo le sue parole mentre toccavano il mio punto debole. I genitori si credono sempre migliori degli altri, perché loro sanno cosa vuol dire responsabilità, e giustizia, e protezione, e sicurezza. Chiunque abbia dei bambini è sempre moralmente superiore al resto delle persone, non è così? Ogni volta che discutevo con i miei genitori, finiva sempre come "Chi non ha un figlio non può capire". Forse da un certo punto di vista avevano ragione: io, quello che lo sconosciuto stava descrivendo come giusta educazione familiare, non lo capivo.

"Stai facendo qualcosa di orribile" risposi. "E illegale".

"Vuoi denunciarmi alla polizia?" mi chiese lui. "Sai come mi chiamo?".

Mi mancò una risposta. Imprecai.

"Conosco l'indirizzo".

"Non riuscirai a fare nulla. L'ala nascosta della casa è inaccessibile, non c'è modo per qualcuno dall'esterno di venire qui e trovare mio figlio". Interruppe quello strano discorso da mente criminale dei film, che ha pensato a tutto, e con un'aria di gentilezza paterna aggiunse "Lascia perdere, va bene?".

Scossi la testa, con incredulità.

"Torna a vivere la tua vita, e lascia che gli altri vivano la propria".

"Sei stato tu a dirmi tutte queste cose!" esclamai.

"Lo so. Pensavo fossi una persona diversa. Una persona che capisse. Vedevo in te qualcosa di diverso dalle altre presenze squallide e superficiali di quei locali. Ma evidentemente mi sbagliavo".

La rabbia e la nausea mi avevano tappato la gola, affaticandomi il respiro e arrossandomi le guance.

"Posso andare via ora?".

"Fallo". Senza guardarmi, aggiunse: "Ti prego".

IL NOTTURNO DI VIA WASHINGTONWhere stories live. Discover now