Unbreakable

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Parole:2026

Passeggiava sul bagnasciuga, i piedi scalzi che affondavano nella sabbia scura e molliccia che li ricopriva. Impronte fugaci, destinate a scomparire non appena il mare le avesse toccate, lasciavano il segno del suo passaggio, testimonianza di quel momento. I lunghi capelli ondeggiavano al vento, creando nodi che nemmeno il più abile dei marinai sarebbe stato in grado di sciogliere. Pareva che danzassero, caotici, impazziti, senza che nessuno li quietasse. Gli occhi erano socchiusi, maschere per proteggere il suo sguardo dal sole pomeridiano che calava sul mare come un sipario sul palcoscenico. Le sue dita stringevano un libro, spiegazzato, ingiallito, consumato dalle mani che più e più volte lo avevano avidamente sfogliato. La sua bocca sussurrava parole mute, prive di suono, note lievi che il vento strappava dalle sue labbra, facendole vorticare nell'aria. Le braccia e le gambe scoperte, riportavano i segni di un combattimento, violento, feroce, spietato, che non aveva trovato né vinti né vincitori. Una leonessa che snudava le zanne e sfoderava gli artigli per proteggere la creatura che amava. Creatura derisa perché diversa, perché unica, perché delicata.
Lo stridio dei gabbiani che facevano da cornice al tramonto estivo le rimbombava nelle orecchie, come il gesso che scalfisce la lavagna, fastidioso, terrificante, stordente. Come grida e lamenti di un essere scontento, troppo debole per farsi valere sui più forti.
La risacca bianca e schiumosa le lambiva di tanto in tanto le caviglie, sfiorandola come dolci carezze sulla schiena di un bambino.
Alti scogli si stagliavano davanti a lei, cupi come il cielo in tempesta, irti e insidiosi, duri e appuntiti, grigi, come il suo sguardo.
Sostavano minacciosi, come un re sul suo trono, che osserva severamente i suoi sudditi.
I suoi piedi, come dotati di vita propria, raggiunsero il termine del bagnasciuga, svuotandola, privandola della frescura dell'acqua che, come una cara amica, le aveva tenuto compagnia fino a quel momento.
La salita era arzigogolata ed altalenante, si innalzava e calava come i toni delle note di un pianoforte, fino alla sommità.
In cima si aprì il mare, sconfinato e immenso, testimone dei suoi gesti, delle sue parole, delle sue promesse.
Là, in fondo agli scogli, sulla punta più sporgente ed estrema, a picco nel vuoto, sedeva una figura solitaria.
Il suo cuore accelerò i battiti e i suoi capelli si mossero e giocarono ancora di più, impazziti, come i serpenti sulla testa di medusa.
Un piede davanti all'altro, camminò fino a lui, su quegli scogli dove lo aveva visto per la prima volta due settimane prima, sempre così, sempre solo, sempre bellissimo.
I corti capelli biondi, in quel lasso di tempo, si erano schiariti, fin quasi a diventare bianchi, come quelli di un vecchio che assiste allo scorrere della sua vita.
La pelle bianca e lattea, come quella di un neonato, ora si era scurita, proteggendolo come un corazza agli occhi del mondo esterno.
Le mani, poggiate all'indietro sulle pietre grigie, sostenevano i suo corpo, saldi appigli che facevano sentire al sicuro.
Quando gli arrivò accanto si fermò, rimanendo in silenzio, a contemplare la distesa d'acqua davanti a sé. Si sedette, accettando il posto che lui le lasciò, quando si accorse della sua presenza.
Lei si voltò ad osservarlo.
Scrutò il volto di quel giovane di cui si era innamorata senza nemmeno accorgersene, a cui erano bastati un sorriso e poche parole per legarla per sempre a sé.
I suoi occhi vitrei ma sorridenti, erano spalancati su un orizzonte invisibile. Quel ragazzo, cieco fin dalla nascita, che aveva imparato a fare da sé già in tenera età, provato dagli eventi che lo avevano privato di qualcosa di fondamentale.
Glielo aveva domandato tante volte, come ci si sentisse a vivere in quella maniera e lui, tutte le volte, le aveva risposto che era come avere davanti un foglio di carta bianco su cui disegnare ciò che più gli piaceva per poi portarselo con sé per tutto il resto della vita.
Lui così immaginava il mondo. Lo creava da sé e ci viveva dentro.
Non conosceva le forme, i colori, i volti delle persone e ne aveva creati di suoi, dandogli la sua interpretazione, il suo stile, il suo volere.
Viveva in un modo parallelo, privo di orrori, in cui ogni giorno poteva essere ciò che desiderava. Un giorno era un principe che attraversava le strade del suo reame di graffite e salutava i suoi sudditi, tutti felici di vederlo e di porgergli i loro doni. Un altro era un valoroso condottiero della medicina, un dottore, che si destreggiava in un laboratorio per creare preziose soluzioni che avrebbero debellato ogni male.
Lui viveva così, alla giornata, senza le preoccupazioni che affannavano tutti quelli che lo circondavano, tutti quelli che gli orrori li potevano vedere e toccare, che vivevano angosciati dalle tragedie che li circondavano.
Lui era una persona felice che aveva fatto della sua menomazione un punto di forza, creando ciò che ognuno voleva per sé ma che non riusciva ad avere a causa dei suoi occhi colmi di angoscia.
Lei si poggiò al suo braccio, lieve, delicata, impalpabile, come una farfalla sui fiori, porto sicuro in un mondo caotico.
-Sei venuta anche oggi- sussurrò lui, poggiando la sua mano sulle sue, piccole e fragili, racchiudendole nella sua stretta, salda e forte.
-Si, ogni volta che ti lascio sento la tua mancanza- gli rispose lei, carezzando la sua mano calda.
Lui sorrise.
-Non ci conosciamo da molto, ma ti sei già affezionata a me. Non è strana la vita? Tutti parlano di come sia assurdo, quasi sconveniente che dopo poco tempo ci si innamori di una persona. Non lo ritengono possibile, dopotutto, per conoscersi, c'è bisogno di tempo. Eppure, quanto qualcuno ti entra sotto pelle, è difficile mandarlo via, quasi impossibile- si voltò verso di lei, guardandola come se i suoi occhi la potessero vedere veramente, scrutandole l'anima e facendola sentire nuda, ma calda, al sicuro da qualsiasi male.
-Ho sempre pensato che l'amore fosse una convenzione sociale, un termine inventato dall'essere umano per nascondere i suoi sordidi intenti, senza che venisse condannato. Da persona pragmatica quale sono ho sempre sfruttato questo come un mezzo per raggiungere i miei interessi, per elevarmi sulla scala sociale, per essere sempre un passo avanti rispetto agli altri- lei sospirò seccamente, buttando fuori una gran quantità di aria, come a volersi liberare di tutto quello di marcio e stantio che albergava dentro di lei.
-Quando sono arrivata qui ero stanca. Provata da tutte le insoddisfazioni e dai rifiuti che avevo ricevuto. Quando ti ho visto qui, solo, ho pensato che non eravamo poi così diversi. Soli in un mondo troppo caotico e vorticoso- si strinse maggiormente a lui, conscia che l'avrebbe sostenuta, senza lasciarla andare.
-Non potevo ignorarti, mi attraevi a te come una falena alla luce e io non volevo andarmene, troppo curiosa di scoprire qualcosa su di te, di sapere che cosa ci facessi lì, tutto solo, perso. Quando ho capito, volevo andarmene, abbandonarti, mi sentivo inadatta e troppo sporca per contaminarti. Troppo marcia per poterti apprezzare, con la coscienza macchiata per aver deriso tanti altri non vedenti, per averli considerati dei poveri dementi, eppure, quando mi hai sorriso, mi sono sentita io una demente, troppo stupida. Mi sono accorta che la vera cieca sono io. I ciechi sono coloro che possono vedere tutto al mondo ma che non fanno nulla per cambiarlo- lo guardò a sua volta, mentre il sole davanti a loro moriva, catturato dalle acque del mare che lo avevano richiamato a sé come un amante geloso e possessivo.
La quiete della notte li avvolse come una coperta, lontani dagli occhi del mondo, distanti da chi poteva far loro del male.
-Sbagliavo a valutarti, ti guardavo con occhi superficiali. Quando mi sono accorta di come ero veramente ho deciso di avvicinarmi, di tentare, di provare ad entrare in sintonia con te. Per cercare di cambiare, di essere migliore- gli prese il volto tra le mani, stringendolo, imprimendogli la sua impronta.
-Sembrano tanto frasi fatte, lo sai? Dette per circostanza, come se non fossero spontanee, come se stessi leggendo un copione e recitassi le battute. Nella mia vita ho incontrato tante persone che credevano di essere i salvatori. Esseri che si sentivano in simbiosi con me, come se io fossi un povero deficiente bisognoso di essere curato. Come se la mia cecità fosse una malattia mentale- il suo tono era duro, freddo, in contrasto con i suoi gesti.
Lei sussultò.
Se l'aspettava una cosa del genere, era abbastanza normale. Non pensava, però, che la cattiveria di cui era intrisa la sua voce fosse rivolta anche a lei.
-Io non pretendo di essere una salvatrice, so di non esserlo. Anzi, a me i ciechi sono sempre sembrati idioti. In questo poco tempo ho veramente cambiato idea, mi sono infatuata di te e non vedo l'ora di dimostrartelo- avvicinò il volto al suo, lasciando che le loro labbra fossero a pochi centimetri l'una dall'altra.
-Dovrei sentirmi leggermente offeso, non credi?- le domandò, tastando lentamente il suo corpo, fino a giungere al viso candido. Posò anch'egli le mani sulle sue guance mentre il volto rimase fermo.
-Eppure, in queste due settimane, ho imparato alcune piccole cose di te che mi fanno capire che sei sincera. Non so se questa cosa tra noi potrà andare avanti o sarà il ricordo di una bella estate, ma questo momento me lo voglio godere e si, alla fine voglio baciarti anche io.-
Le loro labbra finalmente si sfiorarono, lievi, dolci, cariche di parole non dette e di parole ripetute, cariche di passione e di sentimenti. Lei lo aveva avvicinato alle sue labbra ma lui la stava conducendo all'estasi, con quelle labbra che sapevano di maschio e di salsedine. Tocchi leggeri, spasmodici che mascheravano ben altro. Baci profondi, che carezzavano le labbra, che le gustavano, che si assaporavano e si conoscevano.
Lui fece scorrere la sua mano lungo il suo collo niveo, stringendola maggiormente a sé, facendole percepire il suo possesso, marchiandola a fuoco, con quelle labbra che la stavano stordendo.
Bruciava mentre le assaporava, fremeva, soffriva. Non riusciva a staccarsene. Erano come una droga potente e assuefacente.
Lei chiuse gli occhi e le mille sensazioni che stava provando, si moltiplicarono all'infinito, sciogliendole il corpo e i sensi.
Lentamente si staccarono, piano, come se non dovessero fare rumore. La dolcezza che riempiva lo sguardo di lei era meravigliosa, tanto quanto il sorriso che aveva acceso il volto di lui.
-L'hai capito?- gli sussurrò lei, carezzandogli i folti capelli biondi, attraversati dalla calda brezza serale.
Lui annuì, poi sollevò lo sguardo, talmente intenso che per un attimo le sembrò che la stesse guardando realmente. Arrossì, lasciando che le guance diventassero vermiglie come le ciliegie e vampate di calore le inondassero il corpo in un crescendo ritmico ed elevato che ricordava il movimento delle onde.
Lui era euforico dentro di sé, si sentiva bene e davanti a sé stava disegnando i tratti della sua splendida principessa, di quella ragazzaccia che aveva tra le braccia.
-Ti fidi di me?- le domandò,abbandonando il suo volto con una tenera carezza, come un velo che scorre sulla pelle fino a scomparire.
Portò le mani alle sue scarpe e se le sfilò e così con i calzini, poi riprese le mani fredde di lei tra le sue.
Le strinse a sé, contro il suo petto, scaldandole, permettendole di percepire la sua presenza come lui percepiva quella di lei, facendosi toccare come lui toccava lei.
-Si- soffiò lei, dopo qualche istante di silenzio.
Le fece sfilare le scarpe, poi la prese per mano e si alzò.
Sapeva esattamente dove si trovava. Quello era il punto più vicino all'acqua, lontano dagli scogli sommersi ma non lontano dalla spiaggia. Sotto di loro vi era come una piscina, ai cui bordi si poteva toccare il fondale con i piedi.
Si avvicinarono entrambi al limitare e dopo aver contato fino a tre ad alta voce, come i bambini nei loro giochi, si lanciarono in mare. Schizzi e spruzzi li sovrastarono e quando riemersero ridevano e si abbracciavano.
Erano due sagome nella notte, illuminate dalle luci del firmamento, immobili, statiche ma brillanti e splendenti, come costellazioni cadute a terra, stanche e provate di rimanere sospese nel cielo.

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