Sette anni prima
Texas, USA
_________________________________- È finita, Amelia. È finita - mi sussurra all'orecchio Lottie, ma non riesce comunque a calmarmi. Lei non lo sa che in realtà vorrei urlare. Loro non lo sanno. O forse lo sanno, ma a loro non importa. Perché dovrebbe?
- Non è finita - ribatto con un fil di voce. Non finirà mai. Mi perseguiterà fino a quando non sarò io ad andarci nella tomba. Allora, forse sarò in pace.
Lottie mi stringe a sè con le sue lunghe braccia, cercando di infondermi un calore che non riesco a percepire. Sono gelida: le mie dita sono fredde e anche la punta del naso, ma è soprattutto il cuore ad essere freddo. Pensavo facesse male: invece, non sento più niente.
- Continuerai la tua vita, Amelia. Sarà difficile, forse, ma sarai felice.
Che brava donna, Lottie. Ma lei non capisce. Lei non sa che dietro la porta mi attende qualcuno. Lei non sa che non potrò mai essere felice perché gli unici che impedivano loro di toccarmi erano i miei genitori. E adesso sono morti.
Mi allontano da Lottie perché tutto il suo affetto non riesce a calmarmi, ma anzi mi rende più nervosa. Perché lo fa? Mi vuole davvero bene? La verità è che non ci credo. Nessuno vuole bene a qualcuno solo perché gli vuole bene davvero. Non è il nostro lato egoistico a prevalere sempre? Non chiediamo sempre qualcosa in cambio? L'amore gratuito, l'aiuto gratuito, un regalo gratuito... mere utopie.
- Ti bagnerai, Amelia, e ti prenderai un malanno! - grida e mi raggiunge per ripararmi dalla pioggia sotto il suo ombrello nero.
Oggi è un giorno nero. Ombrelli neri, abiti neri, giacche nere, cielo nero gonfio di pioggia. Uomo nero. Era lì anche lui, a stringermi la mano come gli altri. Sarò stata in fila almeno un'ora.
- La parte difficile è finita, Amelia - rincara Lottie. - Ora torniamo a casa.
Non ci mette niente a stenderci col gas nervino, vorrei dirle. E il giorno dopo ti sveglieresti e non riusciresti a trovarmi. E non mi troveresti più. Mai più.
L'ho letto chiaramente nel suo sguardo. È stato quando ho dovuto sopportare quelle ore di agonia. Prima le parole del pastore Rivera, il quale si è prodigato nel tessere le lodi dei miei genitori, riducendo in lacrime anche il più tosto dei loro amici. Tranne me. Ero apatica e lo sono anche ora, mentre percorro il vialetto inondato sotto l'ombrello. Mentre il vento mi sferza il viso ghiacciando le lacrime che premono agli angoli degli occhi, ma a cui l'orgoglio e la rassegnazione impediscono di uscire.Dopo il toccante sermone, ho stretto la mano a centinaia di persone venute anche da lontano per darmi le loro condoglianze.
"Erano delle brave persone"
"Che peccato che sia successo proprio a loro"
Frasi di rito che non hanno nulla di vero.
I miei genitori erano delle persone di merda. Lo so perché erano una merda anche con me. Li odiavo, ma mi erano necessari. Li odiavo, ma la loro presenza mi impediva di morire. Li odiavo e ora sono morti. E niente sarà come prima.
Quando l'uomo nero mi si è avvicinato, ho represso un urlo di sorpresa. Sono fiera di me stessa per non aver nemmeno sobbalzato quando mi è giunto dinanzi. Eravamo uno di fronte all'altra, lui alto e robusto, con le spalle larghe da giocatore di rugby; io di un'altezza nella media e un fisico debole in confronto al suo. Ma gli ho tenuto testa. Ho affrontato il suo sguardo così come si affrontano le peggiori paure e l'ho sostenuto senza battere ciglio. Si era tolto gli occhiali da sole da Matrix proprio per guardarmi negli occhi e dopo tutta quella fatica non potevo deluderlo. Ignorai la lunga cicatrice che gli solcava metà volto e mi concentrai sull'indagare i meandri di quegli occhi scuri come la notte, iniettati di sangue. Non mi ero mai accorta, a causa degli occhiali dalle lenti nere, che, in realtà, c'era un occhio solo da guardare.