Prologo

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Quando scendo dalla macchina della polizia, guardo l'edificio del tutto nuovo difronte a me. Un cancello nero viene spalancato quando l'agente preme il campanello rosso, producendo un rumore fastidioso.

Il grande cartello all'entrata mi fa rabbrividire di colpo, esso cita "sunshine, ospedale psichiatrico, qui ritroverete la luce della sanità!"

"È uno scherzo vero? Non potete star facendo sul serio!" Continuo a dimenarmi, ma l'agente mi spinge verso la porta. Accanto a lui c'è mio padre, che con sguardo basso cammina al nostro fianco per i corridoi del tetro edificio.

"Salve, ho parlato poco fa al telefono con la direttrice, sono l'agente Prank." Dice poi, io storco il naso nel sentire il mio stesso cognome affibiato a lui, lui non era mio padre, o almeno per me non lo era più.

"Certo, ha parlato di due nuovi pazienti, uh?" La donna dietro alla scrivania, nel suo angolo protetto da un vetro trasparente, si acciglia guardandomi.

"Sì, l'altro lo porteranno dentro dopo." Continua, io scalcio per liberarmi dalla presa.

"Potete accompagnarla nell'ufficio della direttrice, sempre dritto, seconda porta a destra, accanto all'infermeria." La donna mostra un sorriso cordiale prima ai due uomini, poi sorride a me, ma io non ricambio. Non posso tollerare tutto questo.

"No, per favore, io non sono pazza! Non è giusto che mi chiudiate in un manicomio, lasciatemi andare!" Strillo, facendo voltare verso di me alcuni impiegati. Mi guardavano con noncuranza, dovevano essere abituati a reazioni del genere.

Arriviamo davanti all'ufficio di quella che a quanto pare è la direttrice di questo posto e l'uomo che non intendeva lasciarmi apre la porta.

"Come puoi farmi questo? Sei peggio di quello che ricordassi." Gli urlo contro, con odio negli occhi e le lacrime che scendono lente.

"Mi dispiace, ma non ho altra scelta. Stammi bene, figliola." E detto questo mi spingono nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle.

Asciugo gli occhi e davanti a me trovo una donna di spalle, con un camice bianco da dottoressa.

"Tu devi essere Tiffany." Esordisce poi, girandosi verso di me. È una donna sulla quarantina, ha la pelle olivastra e l'aria seria, sotto quegli occhiali che le ricandono sul naso. Sotto al camice indossa un vestito nero che la fa sembrare la strega di Biancaneve.

"Per favore, siediti." Indica con una mano la sedia di legno davanti alla sua scrivania, prima di accomodarsi dietro di essa, su una poltrona girevole.

"Scusi ma...hanno commesso un errore, io non dovrei essere qui." Dico con frenesia, sedendomi difronte a lei.

Senza preavviso due infermieri entrano nella stanza, lei fa un cenno col capo ad entrambi e loro rimangono immobili accanto alla porta.

"Tiffany, tuo padre mi ha raccontato tutto su quello che è successo, non hanno commesso nessun errore, anzi. Hanno fatto più che bene a portarti qui." Incrocia le mani sopra il legno in mogano e mi guarda con un mezzo sorriso, uno di quelli finti e snervanti. Non posso contenere un sospiro rumoroso.

"Ma io non sono pazza, non ho niente che non va!" Ammetto, lei scuote il capo.

"Sulla prima non c'è dubbio, ma devo dire che sulla seconda non sono d'accordo. Tu hai decisamente qualcosa che non va, Tiffany." Quelle parole così dure mi fanno gelare il sangue nelle vene.

"No, non è vero!" Dico ad alta voce, lei mi guarda con disappunto.

"Si da il caso che tu, cara Tiffany, abbia una malattia psichica che, in questo istituto, non avevamo ancora incontrato. Tu hai la sindrome di Stoccolma."

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