Purple Rain

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Era tutto nero. Nero, nero come la morte. Nero come il buio. Nero, come solo il nero può essere.
Il nero, lentamente, era diventato parte di me. Lo sentivo dentro, quel colore, lo sentivo addosso, come se fosse parte di me. Era parte di me. Nero. Una parola descriveva tutta la mia esistenza.

Ma non era sempre stato così. Un tempo avevo conosciuto altri colori. C’era stato un momento in cui ero
fatta di colori. Un tempo in cui per me esisteva il rosso, il blu, il verde, il viola, che mi piaceva tanto … Sì, il viola era stato il mio colore preferito. Quando mi aveva chiesto il perché, gli avevo risposto che il viola era equilibrio, che era armonia. Il viola era il perfetto equilibrio tra rosso e blu, tra caldo e freddo, tra vita e morte.
Non aveva risposto. Era rimasto in silenzio, a fissarmi. E poi, aveva iniziato a cantare. Sì, a cantare, come uno stupido. A cantare, in mezzo al prato, davanti a tutti. All’inizio non avevo capito perché: non mi piaceva quel genere di musica. Ma poi, capii, quando canticchiò il ritornello con la sua voce morbida, che sembrava velluto, senza dire altro. Era “Purple Rain”, di Prince, mi rispose, quando glielo chiesi. Non ricordo come facesse esattamente il testo, ricordo solo come l’avevo tradotta nella mia mente:

Tesoro, lo so, lo so, lo so che i tempi stanno cambiando , 
E' tempo di raggiungere qualcosa di nuovo .
Questo vale anche per te.
Dici di volere un leader,
Ma sembra che tu riesca a deciderti.
Credo dovresti chiudere la tua mente
E lasciare che io ti conduca nella pioggia viola

Pioggia viola, pioggia viola
Pioggia viola, pioggia viola

Quello era il suo viola, per me. Il viola era il nostro colore, in fondo. Lui era il blu, io ero il rosso.
Lui, che sembrava così freddo, così distaccato. Lui, che riusciva ad essere così dolce, quando voleva. Lui, che non parlava mai di sé. Lui, che aveva la stessa perspicacia di un cucchiaino. Lui, che non aveva mai capito che lo amavo, finché non glielo avevo detto io, in faccia. Lui, che non aveva mai capito, tutte le volte che avevo cercato di farglielo intuire. Perché lui, di intuito, non ne aveva molto. Anzi, quasi zero.
E poi c’ero io. Sì, io, che non stavo mai ferma, che lo intontivo con le mie chiacchiere. Io, che gli raccontavo qualsiasi cosa mi passasse per la testa, che avevo già capito tutto due settimane dopo che ci eravamo conosciuti.
Eravamo due opposti, eravamo come il fuoco e il ghiaccio, eravamo uguali e allo stesso tempo totalmente, irreparabilmente diversi. Eravamo come il sole e la pioggia, vivevamo l’uno accanto all’altra, chissà come senza distruggerci a vicenda. E avremmo potuto, se lo avessimo voluto. Ci saremmo fatti a pezzi a vicenda, di noi due sarebbe rimasta solo cenere. La cenere di un amore folle, di un amore fuori dagli schemi, che era nato sbagliato, in un modo sbagliato, in un posto sbagliato e in un momento sbagliato. Uno sbaglio, sì. Uno sbaglio, ma io amavo quello sbaglio.
Lo amavo? Sì, lo amavo. Lo amavo, più di qualsiasi altra cosa. Lo amavo come la terra ama la pioggia, lo amavo come la terra ama il sole, e offre loro i suoi fiori più belli. Lo amavo perché lui era l’altra parte di me. Lo amavo, perché lui era il mio tutto. Come quella canzone che avevo cantato a una recita della scuola anni e anni prima, quella canzone di Michael Bublè. Lui era così, per me. Lui era davvero il mio tutto.
Lui non parlava tanto, ma sapeva ascoltare. Io parlavo, e lui ascoltava, con la testa inclinata da un lato. Ascoltava, e basta. Senza interrompere, senza fiatare, senza rispondere. Mi ascoltava.
Lui diceva che gli piaceva, perché se gli raccontavo tutto voleva dire “che mi vuoi bene e ti fidi di me, e allora sono contento”.
La nostra storia era stata fatta di colori, e di musica, la musica delle colonne sonore, la musica delle canzoni.
Penso che fosse l’unico che conoscessi che ascoltasse colonne sonore. Lui non ascoltava rock o pop o heavy metal o country o altro. Lui ascoltava le colonne sonore. Le colonne sonore dei film che gli piacevano. Le colonne sonore pescate a caso da YouTube. I Two Steps From Hell e X-ray Dog erano i suoi preferiti. Lui amava la musica. La sua vecchissima chitarra aveva suonato talmente tanto che ovunque si vedeva che stava cadendo a pezzi. Lui, quella chitarra, aveva sempre rifiutato di cambiarla. Diceva che in quella chitarra aveva lasciato un po’ della sua anima, che le sue dita avrebbero potuto suonare solo quella. Già, le sue dita. Le sue dita pallide, lunghe e magre, le sue mani da pianista, come specificava lui stesso. Le sue dita, che tenevano in mano una penna ore ed ore, senza stancarsi mai.
Lui scriveva sempre. Una volta mi aveva fatto leggere uno dei suoi racconti, un racconto che parlava di un mondo diverso, un mondo che aveva fatto nascere. Lui mi aveva detto che scriveva perché con le sue parole poteva diventare un dio, poteva creare e distruggere, poteva creare un mondo suo, per certi versi un mondo migliore.
Quando scriveva ascoltava sempre con il suo vecchio mp3 diversi brani, diceva che gli serviva per creare l’atmosfera.
Ed è così che se n’è andato, con la musica. Per sbaglio. Uno sbaglio me lo aveva dato, e un altro sbaglio me lo aveva portato via.
Se n’è andato sereno, con calma, senza fretta, proprio come era in vita. Quando l’auto lo aveva investito, in un attimo era per terra. Ero corsa verso di lui, mi ero piegata piangendo sul suo corpo. Lui mi aveva consolata, mi aveva accarezzato i capelli con le poche forze che gli rimanevano. Lui aveva consolato me.
Intanto, intorno a noi, tutto si era fermato. Le auto si erano fermate, il tempo anche. Sentii che qualcuno chiamava un’ambulanza.
Io piangevo, senza avere la forza di dire nulla, lui, invece, cercava di consolarmi, e sorrideva.
Mi aveva sussurrato qualcosa, qualcosa di incomprensibile. Poi, tossendo, aveva detto due parole, due sole parole: “Ti amo”. Poi aveva guardato il cielo, un cielo luminoso e blu, con le nuvole che sembravano giocare fra loro. Due uccellini l’avevano attraversato, cinguettando allegramente, dicendosi chissà cosa.
Avevo visto la luce passare nei suoi occhi, e aveva sorriso di nuovo. E poi, quella luce, la luce che si era portato dentro sempre, ogni secondo, se n’era andata, lasciandolo con il sorriso sulle labbra.
Avevo gridato, lo avevo supplicato, gli avevo urlato contro, ma quel sorriso era rimasto.




Sono passati anni, o forse solo poche ore. Non lo so. Ora per me è tutto nero. Tutto è nero perché lui non c’è più. Lui non c’è più. Non lo vedrò mai più ridere, non sentirò più il suo buffo accento del nord. Non potrò mai più dirgli che lo amo. Tutte le parole che non ho detto mi rimangono dentro, non potrò dirgliele mai più. Non ho un posto dove poterlo piangere, non ha voluto. Ha preferito che quello che restava del suo corpo fosse sparso in aria, nell’azzurro del cielo.
Mentre l’elicottero passava sopra il mare, avevo lasciato andare quelle ceneri, avevo visto quella polverina grigia volteggiare con il vento e sparire, per sempre.
E poi, il nero mi aveva coperta. Il nero è entrato dentro di me, e non se n’è più andato.
Un giorno, vagando su YouTube, avevo trovato quella canzone. Sì, proprio quella canzone che mi aveva canticchiato sul prato, la canzone del viola. Dopo anni, o forse secoli, avevo sentito tornare le lacrime, e avevo pianto.
Piangevo per la parte della canzone che non mi aveva cantato, forse perché non se la ricordava, o forse lo aveva fatto apposta. Il significato era:

Se sai di che cosa sto cantando quassù
Alza le tue mani

Pioggia viola, pioggia viola
Pioggia viola, pioggia viola

Voglio solo vederti, 
voglio solo vederti nella pioggia viola

E allora capii. Capii che cosa mi aveva detto, prima di quelle due parole, prima di andarsene.
Aveva detto “I will always be with you”, sarò sempre con te. Lo sapevo perché aveva iniziato a scrivere un brano con quel titolo, il primo brano scritto da lui.
Sapevo cosa fare. Per la prima volta, guardai nelle scatole dove sua madre aveva raccolto le sue cose, non molte, a dire il vero. Cercando di evitare che il mio sguardo cadesse sulle sue cose, come la catenina gemella alla mia che mi aveva regalato, i suoi libri, presi il raccoglitore dove teneva i suoi spartiti, quello rosso dove avevo disegnato chiavi di violino e note, durante un giorno di pioggia. Poi mi alzai, chiusi gli occhi, e afferrai la sua chitarra, tremando.
Respirai a fondo, e aprii il raccoglitore all’ultima pagina. Imbracciai la chitarra e iniziai a suonare, cantando, mentre la mia voce tremava dalle lacrime.

Sarò sempre accanto a te, 
guardati attorno, 
non mi vedi? 
Sono qui.
Non vedi la mia anima correrti attorno?
Ora vedo. 
Ora che vedo che ci sei non sono più solo.

Cantai la sua canzone, e per un momento mi sembrò di sentire la sua presenza accanto a me.
Cantai, e lui cantò con me, la sua voce si unì alla mia, e capii: era sempre stato lì, non se n’era mai andato.
E il nero diventò l’azzurro del cielo.

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