Ogni tanto ero un po' io triste, un po' arrabbiato, un po' malinconico e lei lo capiva prima di tutti, allora mi faceva cenno di appoggiare il viso sul suo lettino e mi prendeva ad accarezzare i capelli che, puntualmente, tingevo ogni volta di rosso:
"Amo i tuoi capelli Elì"
<E io amo te Gaia>
Quante volte avrei voluto risponderle così, ma mi bloccava sempre tutto, cosa poteva interessarle in quel momento? A cosa servivano due parole quando, secondo me, bastavano i fatti, bastava essere lì ogni giorno. Non sono forse più importanti i gesti rispetto alle parole? Non abbiamo forse sempre bisogno di conferme e non di due frasi che tutti ci possono riservare? Vogliamo sentirci dire che la gente ci ama, che ci vuole bene, vogliamo sentirci augurare la buonanotte, il buongiorno, però allo stesso tempo tutti vorremmo la presenza di qualcuno al nostro fianco, anche silenziosa, e allora cosa sono le parole? Cosa diventano? Perché quando stiamo male preferiamo essere abbracciati e non rincuorati a parole? Perché ci sono coppie che passano le ore a baciarsi e non a dirsi quanto si amano? Perché forse le parole non contano poi così tanto, forse a nessuno frega più realmente niente.
Così la lasciavo parlare, l'ascoltavo fare apprezzamenti su di me, sulla mia persona.
Un pomeriggio le portai anche una mia canzone, un paio di tracce a cui stavo lavorando, gliele feci sentire tramite un paio di cuffie, erano un po' volgari e non mi sembrava il caso di renderle pubbliche.
Lei le ascoltò tutte, mi disse che erano belle, che ne voleva sentire ancora e che dovevo farle anche per lei. Mi assicurò che, indipendentemente dal pensiero degli altri, lei in me ci avrebbe sempre creduto e che un giorno avrei spaccato, da solo o con qualcuno.
I mesi passavano e io avevo imparato ad aspettare. Ad attendere che la visita dei suoi genitori finisse, si allungava mano a mano che proseguiva il tempo. Giravo per i vari corridoi, osservandomi attorno, quando i medici stavano in quella stanza più del dovuto, ma a Gaia chiedevo poco, niente, non mi andava di farle pesare la sua malattia, volevo solo farla ridere.
"Ciao..."
Ero entrato una volta con in mano un paio di fogli protocollo a righe e lei mi aveva guardato, chiudendo il libro che stava leggendo e ripetendolo sul comodino. Avevo preso la sedia e mi ero seduto vicino a lei:
"Cosa mi hai portato oggi di bello?"
Mi domandò, emozionata, pur se la sua voce tutta quella emozione non la lasciava trasparire:
"Ho fatto un tema oggi"
"Da quanto non andavi a scuola?"
Mi domandò, inaspettatamente, ma neanche troppo, era intelligente Gaia, di un'intelligenza della quale ti potevi innamorare. Bastava quello per cadere ai suoi piedi, quando vedevi il suo aspetto e poi conoscevi il suo carattere, allora lì si faceva bingo, facevi centro. Era una persona stupenda in tutto e per tutto.
"Da qualche settimana, ma con il tema volevo provarci, a scrivere non bisogna studiare, ho voluto rischiare e ho preso sette e mezzo"
Le lo dissi fieramente. Sette e mezzo. Era un voto stupendo per uno come me che odiava la scuola, era qualcosa di unico, di impareggiabile e lei lo sapeva:
"Sei stato bravissimo"
"Volevo leggertelo, sai, ti ho pensato"
"Che traccia era?"
"<L'importanza dei gesti> Questo era il titolo"
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Giù la maschera | Drefgold
Short StorySoldi, fama, donne, sold out continui, uno dopo l'altro. Come si può non definire una vita del genere a dir poco perfetta? Ma, come ci hanno insegnato tanti grandi della musica, non solo suicidandosi, non è tutto bello come appare agli occhi di chi...