Bianca

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Tre ore per cercare foto decenti di Drefgold, ma va bene.

Buona lettura 


Avere 21 anni e vivere questa vita non è facile come sembra. Non è facile operare in un ambito lavorativo con un mercato così ricercato e difficile dove, se non accontenti il pubblico, non piaci a nessuno se non a poche eccezioni.

Cosa c'è di male se voglio fare una musica facile, banale, non complessa, non ricca di significati, ma che arrivi a un pubblico più piccolo? Non è forse comunque pubblico da soddisfare?

Sempre più spesso, in queste serate un po' più buie e fredde, mi ritrovo per le vie più marginali di Bologna a passeggiare e a ragionare su ciò che sto diventando. Su quanto la vita ti da e toglie, ma allo stesso tempo, nello stesso giorno e ti ritrovi, la sera, sul letto a tirare le somme, a comprendere quanto tu abbia guadagnato e quando la vita, in cambio, si sia presa.

Stanotte è una notte di quelle. Però non sono a casa mia, al caldo, sotto le coperte, ma sono giunto in una stazione abbandonata (dove venivo spesso), sdraiandomi sui binari a guardare le stelle. Mi accendo una sigaretta, che ormai non fumo da un po' e riappoggio a terra la testa.

Chiudo piano gli occhi, lasciando che il vento mi faccia muovere poco i dread bicolore.

Questa stazione la ricordo perfettamente. In quello che sembra ormai il lontano 2015. Sento ancora le urla di un me ben più ragazzino che corre e fa i disegni con le bombolette, di notte. Sempre di notte. Perché di giorno la città si rianimava e la stazione a quei tempi funzionava.

Ricordo i miei amici, che ora non sono più tali e non sento più. Che si sono fatti sentire solo quando è stato annunciato Sciroppo, prima, e Tesla, poi. A cui non ho risposto, perché è comodo tornare quando dall'abisso ci risali e puoi lanciare funi per salvare gli altri.

Mi porto una mano sugli occhi, ridendo sguaiatamente alla Luna che è l'unica, certe volte, in grado di ascoltarmi ancora senza giudicarmi, senza pensare che mi faccio le canne, senza etichettarmi come "drogato", "fallito", "venduto" o, peggio del peggio, "cancro".

Mi rifaccio serio per un attimo a quell'ultima parola e mi levo piano la mano dagli occhi, sdraiandomi su un fianco come fossi su di un letto.

"Cancro"

Quel nome mi rimbomba nella mente più e più volte. Cosa c'è di bello nel definire qualcuno "cancro"? Non è bello. Non lo è. Specialmente se lo hai vissuto o se hai avuto qualcuno di molto vicino a te che lo ha avuto. Non è bello. Proprio per niente, ma forse la gente non sa il prezzo di perdere qualcuno per una malattia, forse non ne ha idea.

La gente ci lascia in tanti modi diversi. In senso finale, non nel senso di andarsene ognuno per la propria strada. Proprio morire intendo. C'è chi muore di vecchiaia, cosa che spero non mi accada perché mi sa di morte in solitudine e io non ci tengo, chi muore di malattia e forse è una delle cose più dolorose che possano esistere, perché sai che ti resta poco, ma non sai come sfruttare quel tempo.

Chi muore per un incidente, sia da colpevole che da innocente, in fin dei conti siamo tutti vittime, strappiamo e ci strappano dalla vita. Poi c'è chi sopravvive, certo, ma non è più lo stesso ed è un'altra specie di morte ad occhi aperti.

Chi decide di uccidersi e chi viene ucciso.

Ne esistono molte di morti reali, poi ci sono quelle mentali, quelle psicologiche, quelle in cui ho paura di cadere e di restarne intrappolato tra le fredde sbarre.
La paura di essere dimenticato mi porterebbe a morire interiormente. L'idea di alzarmi e non avere i fan che mi acclamano, vederli dimenticarsi di me, non ascoltare più le mie canzoni; i soldi andrebbero in secondo piano, anzi, nello sfondo più remoto. I soldi contribuiscono alla tua felicità, ma non bisogna mai restare soli e pur di avere sempre la certezza di avere anche solo UNA persona che crede in me, sarei disposto a perdere tutti i miei soldi.

Ho già perso una persona così.

Gaia.

Apro piano gli occhi, rivedendo quel me del 2015 che corre sulle rotaie e lei appoggiata alla panchina della stazione:

"Dai Gà, ci sono io"

Io che la invito, che le allungo le mani, che le faccio capire che i treni lì non passano più, che lo prenderei io in pieno, piuttosto che ferire lei. E lei che ride, che ha paura, ma che si avvicina piano a me e io la prendo per i fianchi, facendola scendere e stringendola a me, sentendo il suo profumo tra le mie braccia. Lei che si fa piccola in un mio abbraccio. Che ride e mi vibra il petto. Che ha il naso rosso e le guance rosse dal freddo e non dalle droghe o altro.

Lei che è pura.

Bianca.

La chiamavo così a volte. Bianca. Il bianco è sinonimo di purezza, di pulizia, di intoccabilità. Gaia era il bianco. Io il nero. Due opposti. Io con la stanchezza onnipresente, con al voglia di trasgredire, la voglia di studiare a zero, il bisogno di fumare, di bere, di divertirmi, di vivermi l'adolescenza a pieno.

Poi c'era lei. Lei così dannatamente innocente, così chiusa in sé, timida, che mi aveva colpito fin da subito per la sua risata e i suoi occhietti piccoli e dolci. Occhi che ho visto rovinarsi non solo stando con me, ma anche procedendo con i mesi e con gli anni.
Occhi che ho visto sempre più deboli, spesso chiusi o che si aprivano poco per poi ricalare.
Le sue mani poi. Le sue mani calde che cercavano sempre e comunque le mie, pur essendo fredde, che fossero abbandonate sui miei fianchi o ficcate in tasca, le sue dita erano sempre intrecciate con le mie.

Dita che con il tempo erano diventate fredde e che non stringevano più le mie.

Ma ero io a stringere le sue, io che tentavo di scaldarle un minimo, prima di andare a trovarla in quel freddo ospedale, per portarle un po' di calore.
Quando non riuscivo con le mani, provavo con i fiori, le compravo fiori diversi ogni giorno.

Lei aveva smesso di sorridere, aveva smesso quasi di salutarmi quando mi vedeva. Ogni tanto mi passava le mani tra i miei capelli scuri:

"Hai mai pensato di tingerteli?"

Mi domandò un pomeriggio, debolmente e io scossi la testa. Lei mi invitò a farlo e io, il giorno dopo, mi presentai coi capelli tinti rossi. 

Rise.

Riuscii a farla ridere, a farla ridere nella sua malattia e fu così per qualche settimana, poi la rividi abbattuta, doveva iniziare la chemioterapia, le sarebbero caduti i lunghi capelli biondi.


Lei era bionda, aveva tanti capelli lunghi, biondi, lisci, da accarezzare e far passare nelle dita per lunghe ore.

Mi ero innamorato.

Innamorato perso. Ed era tardi per innamorarsi per noi due, troppo tardi per me e lei, per noi due. Ma non me ne rendevo realmente contro.

Aveva smesso definitivamente di ridere, ma qualche sorriso me lo accennava ancora:

"Sei bello Elia, non permettere mai a nessuno di levartela quella felicità, quella luce che hai negli occhi"

Mi sussurrò piano, con fatica, tossendo poi e io avevo semplicemente annuito.

Ogni giorno andavo a trovarla, a costo di saltare la scuola, di perdere i pullman e i treni e stare lì fino a tardi, sotto la pioggia, con la neve, con il vento. Ero ormai diventato la sua unica certezza. La certezza che ogni giorno, alle 17:00 fino alle 19:00 io ero lì. Ero lì a tenerle la mano, a raccontarle delle stupidate che a quella nostra giovane e stupida età potevamo fare.

"E poi Andrea ha preso e ha iniziato a correre dalla polizia, è riuscito a seminarli"

Le raccontavo, emozionato e lei rideva, per quanto potesse, sorrideva, quello sempre, per farmi capire che mi ascoltava, che si immaginava la scena.

Ogni tanto ero un po' io triste, un po' arrabbiato, un po' malinconico e lei lo capiva prima di tutti, allora mi faceva cenno di appoggiare il viso sul suo lettino e mi prendeva ad accarezzare i capelli che, puntualmente, tingevo ogni volta di rosso:

"Amo i tuoi capelli Elì"

<E io amo te Gaia> 

Giù la maschera | DrefgoldDove le storie prendono vita. Scoprilo ora