Nuvole nere

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Ero lì, incapace di muovermi. Seduta su una sedia, inerme. Non sapevo cosa dire, come comportarmi, nulla sapevo. Guardavo ovunque, ma da nessuna parte. In un momento preciso, dopo quelle parole che pesavano un macigno, come se ci fosse una palla da basket nel mio stomaco. "Abbiamo scoperto che ho il cancro, ma devi stare tranquilla, è una piccola cosa malvagia" Ho pianto, a dirotto quel giorno, senza smettere mai. Ho urlato di rabbia e disperazione. Mi sono buttata su quelle braccia che da quando ero piccolina mi tenevano strette. L'ho abbracciata davvero, senza fiato, con le lacrime incollate sulle guance. Poi ho guardato papà, nei suoi occhi leggevo l'amarezza, la stanchezza di un uomo che ha lottato per la donna che amava contro una nuvola nera. Una nuvola nera dove non vedeva, cercava di cacciarla via con tutte le sue forze, ma che rimaneva lì. Immobile. Probabilmente lo sapevano da un bel po' loro due, lo vedevo, lo sentivo. Eppure io non me ne ero mai accorta, vivevo tranquillamente la mia vita, mi divertivo, facevo le solite cazzate da adolescenti mentre i miei genitori lottavano con qualcosa di molto più grande di loro. Ultimamente sul telefono mi capitava spesso di leggere notizie di persone morte per questa malattia. Ma non lo sentivo mio questo problema, spesso quello che succede ad altri non cambia la nostra prospettiva di vita: rimaniamo sempre uguali, non ci cambia un cazzo. Poi quando capita a noi, alle persone che ci sono vicine, ce ne rendiamo conto. Poi ho abbracciato anche Papà, mi sono sfogata come una bambina, ho guardato mamma e le ho dato un bacio sulla guancia. Le ho detto che le volevo tanto bene, che insieme avremo superato tutto. Ho avuto la speranza, la voglia di voler davvero cambiare le cose. Almeno all'inizio, poi la depressione e la paura mi assalivano di giorno in giorno sempre un po' di più. Guardavo la donna che mi aveva sempre cresciuto con tanto amore, che aveva tenuto testa al lato più brutto di me, la donna che mi era sempre stata accanto quando nessun altro c'era. Che mi ascoltava, mi insegnava, mi capiva, mi amava. La vedevo cambiare, il suo corpo era sempre più magro, il suo tempo era sempre di meno. L'ospedale era diventata la sua seconda casa, ma non per scelta. Non per volontà sua. I suoi capelli cadevano, sempre di più, da un giorno all'altro. I suoi occhi si gonfiavano, le sue guance erano sempre più scavate e non aveva più il suo solito colorito roseo, di chi si vede che sta bene. Ma la vedevo sempre bellissima ai miei occhi, la donna più bella che c'era. Dentro di me però, stava succedendo qualcosa. Cresceva in me una apatia, che partiva proprio dal cervello. La paura di stare male, di soffrire era più forte di me. Ho iniziato a vivere i miei giorni diversamente: non pensando che fossero i suoi ultimi. Non pensando alla sua malattia, alla sua di vita. Li passavo senza pensieri. Credevo che in qualche strano modo lei ce l'avrebbe fatta, o per grazia divina o perché non si può morire così. Non in questo modo, non a quest'età. Quando andavo a trovarla in ospedale, cercavo in tutti i modi di farla ridere, perché quando vedevo il suo mi sentivo tranquilla. Felice.

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