Capitolo Uno.

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La metropolitana di New York era veloce, efficiente e senza di essa non sapevo come avrei fatto a spostarmi, visto che attraversare il Terrace con la macchina della mamma non sembrava possibile e oltretutto era una decappottabile, il che la rendeva solo più inutile allo scopo. Fortunatamente quella mattina il cronometrico treno delle 8:05 non fece ritardo, ero io a essere due secondi troppo lenta per prenderlo e le porte grigie e fredde mi si chiusero a due centimetri dalla faccia, dandomi persino il tempo di sbatterci contro, suscitando il più totale menefreghismo da parte di chi mi guardava, che forse pensava fossi una minorata mentale , e probabilmente aveva ragione. Non potevo fare ritardo, cinque minuti al prossimo treno erano troppi, dovevo cambiare linea. Altro grande vantaggio era il fatto che la mia fermata, Central Park, era collegata a qualsiasi linea. Una donna con un provocante rossetto rosso aveva varcato la soglia del binario nel mio stesso istante e adesso andava sbraitando insulti a destra e a manca contro qualche povero malcapitato. Mentre mi affrettavo a uscire dalla stazione la donna mi fermò

“Hey ragazzina, dove stai andando?”

“Cosa le importa?”

Alzò le mani con fare innocente e nello stesso momento il mio cellulare vibrò, segno che era arrivato un messaggio. Girai i tacchi e mi diressi verso l’uscita con passo affrettato, attenta a non far cadere il mio preziosissimo iPhone, l’unica cosa davvero costosa che avessi mai avuto. Feci in tempo a leggere ‘Sarah’ sul display, che la donna mi sfrecciò accanto e mi diede uno spintone non troppo forte , in grado di farmi perdere l’equilibrio però, e mi sfilò il cellulare dalla mano, correndo via in un lampo. Io nel frattempo mi ritrovavo appoggiata con un braccio sulle luride scale che portavano all’esterno, troppo stupita per poter fare qualcosa. La rabbia mi suggeriva di lanciarmi all’inseguimento oppure di mettermi a urlare una scarica di parolacce verso la signora che mi aveva preso la scatoletta di metallo a cui tenevo di più. L’occhio per fortuna mi cadde sull’orologio che avevo sapientemente messo al polso, con l’intento di sembrare più professionale. Le 8:08. Qualsiasi treno, anche se si fosse materializzato sotto i miei piedi in quell’istante, avrebbe impiegato almeno quindici minuti ad arrivare alla mia fermata. Senza contare i cinque minuti di cammino che avrei dovuto aggiungere dalla fermata a scuola.

“I numeri mi danno alla testa!”

Sbraitai rimettendomi in piedi incurante della gente che passava, nella Grande Mela è frequente incontrare delle ragazze in ritardo per la prima volta in vita loro, che parlano da sole dopo essere state rapinate da chissà quale stracciona. Quei numeri mi stavano sul serio dando alla testa e mi stavo scervellando a calcolare quale fosse la strada più breve, il tempo che ci avrei impiegato e gli orari dei treni. Tutto per non perdere il primato di ragazza più puntuale del pianeta, a mio avviso. Mi fermai accanto a un bambino che teneva in mano un pacchetto i gomme a forma di sigaretta , per riprendere fiato. Dovevo accettare l’idea che non avrei mai fatto in tempo. Il bambino mi guardò in modo strano e poi mi offrì una delle sue gomme, che accettai con un sorriso spontaneo. L’innocenza dei bambini è qualcosa di unico e da non intaccare, e la combinazione sigarettepiùbambino mi riportò alla mente quando avevo dovuto dare a mio fratello la notizia della morte di mio padre, per cui diedi una carezza amichevole alla zazzera rossa del ragazzino e mi allontanai di corsa verso la stazione successiva della linea rossa, quella che mi pareva essere la più veloce. Proprio mentre stavo per addentrarmi in un’altra delle puzzolenti fermate, un clacson suonò dietro di me. Lo ignorai, pensando che fosse qualche cinquantenne in crisi di mezza età rimasto colpito da quello che evidenziavano i miei skinny jeans ma quando suonò una seconda volta mi girai per vedere Sarah e Ashton che mi facevano segno di correre verso di loro.

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