Prologo [versione cartacea]

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Caterina sapeva la grammatica a memoria come l'Ave Maria, non c'era verbo latino o greco di cui sbagliasse accento, coniugazione e paradigma.
Lei amava quelle lingue dimenticate, e per questo motivo veniva sbeffeggiata da tutti.
Era come se gli altri non capissero, o meglio, non cogliessero il fascino di quei frammenti antichi e allo stesso tempo attuali.
Le poesie meravigliose di Catullo, di Callimaco, le massime filosofiche di Seneca; la bellezza di personaggi controversi come Didone e Medea; la tenerezza, ma soprattutto l'amore trasmessi dai versi di Omero nell'addio di Ettore ad Andromaca prima della battaglia che avrebbe segnato per sempre il destino di Troia.
C'era bellezza ovunque nei libri che erano obbligati a studiare. Era stato donato loro un tesoro e non lo sapevano. Per i suoi compagni erano soltanto dei compiti da svolgere controvoglia, per lei invece quelle pagine erano fonti infinite di cultura, cibo per l'anima.
Era davvero l'unica a commuoversi ogni dannata volta che rileggeva per puro masochismo il passo della morte di Didone? Non una donna qualunque, ma la regina di Cartagine, che per amore del pius Enea, un essere insignificante, aveva perso l'onore e si era annientata. La amava e la odiava per essersi uccisa a causa di un uomo che aveva giocato con i suoi sentimenti ed era stato incapace di darle un addio decente. Da buon vigliacco, se n'era andato con le sue navi nel cuore della notte per compiere il suo destino: trovare se stesso. Secondo Virgilio, per fondare Roma, ma questa era un'altra storia.
E poi tutte quelle arie da prescelto che si dava. Gli dèi avevano in serbo altro per lui e, da bravo scolaretto, si era rimesso al loro volere.
Come aveva potuto una donna forte come Didone, che aveva ricostruito la sua città e non si era lasciata mettere i piedi in testa da nessuno, farsi ridurre così da un cretino qualsiasi? Almeno lo aveva maledetto, si diceva Caterina, per consolarsi.
Ma la sindrome da crocerossina di Didone era piuttosto comune: troppe donne si facevano distruggere da omuncoli senza spina dorsale, e il mondo era pieno di Enea.
Troppi Enea e pochi Ettore, si lamentava spesso Caterina.
E che dire della feroce, ma immensa, Medea di Euripide? Uno spettacolo, quella tragedia.
Non c'erano parole per descrivere il pathos, la rabbia e la compassione da cui veniva sopraffatto chi leggeva quella storia.
Medea era solo una disgraziata, vittima di un uomo che prima si era servito di lei e poi se ne era sbarazzato nel momento più opportuno. Aveva abbandonato suo padre e la sua casa, e senza le sue abilità magiche Giasone sarebbe stato ancora lì a brancolare nel buio come un idiota per cercare di prendere il Vello d'oro.
Lo aveva persino seguito a Corinto per amore, accettando di viverci in condizione di straniera. Come doveva essersi sentita, quando era venuta a sapere che l'uomo di cui era innamorata, l'uomo per cui aveva rinunciato a tutto, l'avrebbe ripudiata per sposare la figlia del re di Corinto? Chi non aveva provato pietà per lei, nonostante tutto? Qui stava il fascino conturbante di Medea.
L'ennesima donna distrutta e resa folle da un uomo insignificante, ingrato e traditore, che non ci aveva pensato due volte a lasciarla per puri fini egoistici.
E di Giasone al mondo ce n'erano anche più di Enea, motivo per il quale Caterina forse sarebbe rimasta single a vita.

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Tracotanza. La Sindrome di Didone (Vol. 1) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora