1. Disperare

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«Albert! Albert!» strepitò, spazientita.

Niente. Non un borbottio, non un mugugno, un movimento accennato, un fruscio, non so: uno sbuffo d'aria!
Che indolente brontolone! pensò Clara, gonfiando le guance per la stizza.

La ragazza, oramai definitivamente esasperata dall'assenza di risposta dell'amico, si guardò intorno e, dopo aver individuato una bacca lucida e rossa poco lontano da lei, gliela tirò in testa. «Ehi, pssst, Albert!»
Come l'oggetto lo colpì, rimbalzandogli addosso, Albert scosse appena il capo, poi lo ruotò lentamente finché i suoi occhi semichiusi e resi cisposi dal sonno non incontrarono quelli di Clara.

«Che c'è?» bofonchiò, indispettito.

«Albert, ma hai visto cos'ha addosso la signora? È un maglione di pile. Di pile!» sottolineò Clara, inorridita, poi si posò una mano sul petto, con fare teatrale. «Cielo, credo sia illegale indossare una roba simile. E poi di quella nuance!»

«Clara, ci saranno meno di quindici gradi, là fuori. Cosa dovrebbe indossare, di grazia?»

«Certo non quell'attentato al buon gusto. Chiamate l'antiterrorismo, qui abbiamo un problema serio. Dove sono finite le pellicce, i broccati, le sete

«Nel dimenticatoio, sia benedetto il nuovo secolo» borbottò Albert, raspando appena con le zampe.

«E poi quel colore di capelli, dico, l'hai visto?» proseguì Clara, imperterrita. «Cos'è, topo invecchiato? O color tristezza mia portami via?»

«Credo sia semplicemente il suo colore naturale» rispose quello, con cautela.

«Ehw!» strillò Clara, così forte da svegliare il piccolo alce che sonnecchiava lì accanto; l'animale, indispettito, scosse appena le corna, poi voltò il capo dall'altro lato. «Credo che non tentare perlomeno di mascherare quel colore sia un'azione deprecabile. Ho visto gente andare in galera per molto meno.»

«Clara...»

«Dico, l'hai vista quest'automobile, poi? Cade a pezzi!»

«Clar-»

«Tutta l'imbottitura dei sedili viene via dalle cuciture, che disastro.»

«Clara, i-»

«Ma dove vivrà, in una catapecchia? Ma ci sarà almeno un albero di Natale? E poi pensa, pensa» esalò, riducendo il tono a un filo di voce guardingo «se possedessero un istrice domestico!»

«Clara!» strepitò Albert, arruffando le penne con una tale foga che alcune di queste si staccarono e presero a svolazzargli intorno. Il piccolo alce si sollevò pigramente e, dopo aver lanciato un'occhiata di fuoco ai due, andò a riposare un po' più lontano, sperando di poter ottenere il silenzio necessario al meritato riposo. «Gli istrici non sono nemmeno degli animali domestici! Si può sapere qual è il vero problema?»

«Il buongusto, che domande» rispose quella, incrociando le braccia con noncuranza e sollevando brevemente le sopracciglia con un certo sdegno.

«La verità, Clara.»

I due rimasero a fissarsi per un po', in una lotta di sguardi senza esclusione di colpi, pronti a scoprire chi dei due avrebbe ceduto per primo. Alla fine «E va bene! Hai vinto tu, vecchio gufo della malora» sbottò Clara. «Ho... ho paura di rompermi» concluse poi in un sussurro, abbassando lo sguardo e osservando le sue scarpe da ballo.

Clara possedeva delle bellissime scarpette da punta: non erano del classico rosa pallido, come voleva la tradizione, ma rosso fuoco, abbinate al tutù che le fasciava il corpo come una seconda pelle e al nastro che le teneva fermo il rigido chignon in cui erano acconciati i suoi capelli.
Quelle scarpe erano la cosa a cui teneva di più e le sarebbe davvero molto dispiaciuto se si fossero rotte – per non parlare del dolore che avrebbe provato, poi. Un giorno, mentre spolverava, il maldestro aiutante del signor Finch l'aveva scheggiata inavvertitamente e Clara aveva provato una fitta lancinante. Non voleva provare più, mai più, niente di simile ed era convinta che così sarebbe stato: nulla più avrebbe turbato la sua quiete.

ClaraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora