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Dopo quel giorno non seguii più Liam nelle sue passeggiate. Smisi di raggiungere il negozio dei suoi genitori, di cercarlo tra la gente, di chiamare il suo nome. Non lo dimenticai e non interruppi l'enorme flusso di sentimenti che mi teneva ancora annodato al suo ricordo - non ne fui mai capace.

Per mesi, però, preferii concentrarmi sulla mia nuova vita. Mi gettai a capofitto nel lavoro, sforzandomi di onorare la memoria del mio predecessore e forse fallendo.

Quell'anno, il 1945, guardai le stagioni rincorrersi e adagiarsi su Barcellona, ferita ma ancora bellissima; cominciai a disegnarla e mi scoprii anche abbastanza capace. Ricevetti diverse lettere da mia madre, animata da una nuova contentezza dopo la fine del conflitto, e gliene scrissi altrettante, fingendo di stare bene, evitando le sue domande con risposte a metà, ostentando una fermezza e una lucidità che mi sembravano troppo lontane per appartenermi.

Non guidai mai, in quei mesi. L'automobile che per anni mi aveva visto al fianco di don Federico rimase ferma, perché sapevo che, se mi fossi avvicinato o se l'avessi guidata, tutto il malessere che tenevo nel profondo del mio cuore sarebbe venuto fuori, mi avrebbe sopraffatto e condotto a compiere qualche follia. Mi spostavo a piedi o, quando le distanze da percorrere erano molto lunghe e io non avevo voglia di perdermi a pensare troppo a tutto ciò che mi era successo, usufruivo dei mezzi pubblici. Non li disdegnavo: ci trovavo talmente tanta vita all'interno da esserne sempre ispirato.

Incrociai i volti di mendicanti, di bambini già vecchi, di donne disperate, di uomini contenti e appagati. L'umanità più pura si concentrava sempre lì, e io ero pronto ad accoglierla tutta e a trascriverla in nuovi racconti che conservavo poi nell'armadio che occupava la parete destra dello studio della casa.

Mi recai in diverse occasioni sia a Mantjuïc che al cimitero di Sant Gervasi. Trascorsi ore intere di fronte a quei nomi incisi nel marmo, a parlare, a scusarmi, a confidarmi, a offendermi, a dirmi vigliacco. E in cambio ebbi sempre il silenzio, che mi fece riflettere e impazzire allo stesso tempo.

Incontrai autori, strinsi mani, conobbi volti che poi mi sarebbero stati quotidiani.

Contattai Alicia, la donna che avevo visto al funerale di don Federico, e le chiesi di incontrarci perché volevo vederla, volevo conoscerla. E lei accettò: mi raccontò la storia filtrata dai suoi ricordi e ancora accudita con l'affetto di una donna che non ha dimenticato. Mi presentò la sua famiglia quando mi invitò da lei, mi mostrò delle fotografie e mi ringraziò per averle permesso di tornare, con la mente e col cuore, a quel periodo, il più felice della sua vita.

Fu ospite anche da me, insieme ai suoi familiari. Non glielo dissi che quella casa era appartenuta a don Federico: non lo credevo necessario, e capii di aver avuto ragione quando, il giorno in cui andò via, mi salutò con gli occhi lucidi, commossi e grati.

Vidi Gracia tornare a sorridere giorno dopo giorno. La accontentai ogni volta che mi domandò di accompagnarla al cinema o di aspettarla fuori dalla chiesa mentre lei assisteva alla celebrazione. Le bastava poco per essere felice, e a me non costava nulla assecondarla. Le lessi ogni parola che scrissi, le permisi di conoscermi a fondo, di scoprire i miei segreti e di reagire in qualsiasi modo. Sapevamo di aver bisogno l'uno dell'altra: per questo non ci allontanammo mai né pensammo mai di farlo.

Mi crogiolai nel tepore dell'abitudine, che fu turbata soltanto una volta prima che il 1946 arrivasse.

Accadde una sera di Novembre, esattamente un anno dopo quella notte.

Stare in casa mi faceva mancare il respiro, perciò decisi di uscire, credendo che un po' d'aria mi avrebbe fatto bene e che, una volta tornato, mi sarei messo a dormire senza troppi problemi. Faceva freddo e mi strinsi nel cappotto mentre attraversavo le strade e mi lasciavo condurre dalle mie gambe; fu naturale, per loro, arrivare lì dov'era cambiato tutto quanto.

C'erano ancora mendicanti e uomini ubriachi che popolavano la strada altrimenti deserta, ma quello che non mi aspettavo di vedere era Liam, una sigaretta stretta tra le labbra e la schiena schiacciata contro il muro. Mi fermai a osservarlo con il cuore che batteva troppo veloce nel petto e gli occhi che pizzicavano. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, come fisso su un ricordo che si stava riproducendo a pochi metri di distanza dal suo volto, arrossato dal vento che lo colpiva aggressivo.

Volevo andare via, ma era come se fossi paralizzato: a correre erano il mio cuore e i miei pensieri, percorrevano chilometri, mentre io rimanevo lì, fermo a un istante che non avrei mai potuto scordare.

Sembrò passare un'eternità, ma so per certo che si trattò di un minuto al massimo. Liam scosse la testa e mi vide, immobilizzandosi in un sorriso accennato. Soltanto allora ripresi a muovermi: e andai via. Ritornai a casa di corsa, i polmoni in fiamme e la paura di crollare ancora e di restare a fondo.

Non avevo saputo più nulla di lui. Avevo pensato che fosse andato via, che fosse tornato in quella nuova esistenza che aveva dovuto crearsi un anno prima, ma dovevo essermi sbagliato, perché era lì, era a Barcellona, dove eravamo cominciati e finiti assieme.

L'adrenalina mi scorreva nelle vene e avevo bisogno di sfogarmi in qualche modo; perciò, dimenticandomi di Gracia che dormiva, mi mossi agitato per le stanze e cercai per tutta la notte i fogli su cui avevo impresso la nostra storia: volevo darli alle fiamme, vederli bruciare e bruciare insieme a loro, insieme a quelle parole che valevano meno dello sputo che mi aveva offerto quel poliziotto. Ma non li trovai.

Rimasi in uno stato di stravolgimento per circa un mese. Avevo trovato un equilibrio e i suoi occhi lo avevano spezzato con una facilità inaudita. Lo rividi nei sogni quel marrone irresistibile, e sembrava ogni volta così reale, così concreto, da lasciarmi inebetito per diversi minuti dopo il risveglio. Di notte, nell'oscurità del mio inconscio, tornavo a studiare le sue labbra, a perdermi nei suoi baci, ad accarezzare le sue mani e a non sentire il dolore che straziava il mio cuore e lo spaccava in due. Ma poi il buio si trasformava in luce, e io ero ancora fermo a lui.

Il mio amore era tutto lì. Avrebbe sempre fatto male, mi avrebbe sempre gettato nello sconforto che caratterizza un sentimento impossibile e a tratti sbagliato: non era sbagliato che io amassi un altro uomo, era sbagliato che io amassi proprio Liam. Eppure riuscii a riprendermi, a ricominciare con le mie abitudini.

E passarono altri mesi: arrivò Natale, accolsi il nuovo anno, piansi quando fu un anno esatto dalla morte di don Federico, incontrai scrittori, disegnai Barcellona, portai Gracia al cinema.

Fino a quando l'equilibrio si spezzò di nuovo, ad Aprile.

Quella mattina mi ero svegliato nervoso e uscii di casa per evitare gli occhi contenti di Gracia. Mi diressi alla Barceloneta, animata da bambini che giocavano fra loro e da coppie che passeggiavano tenendosi per mano.

Quante volte, due anni prima, avevo desiderato essere al loro posto insieme a Liam.

Non capii che il tempo era passato e che ero rimasto seduto sulla sabbia per quasi tutto il giorno fino a quando qualcuno non mi fece notare che era una bella serata. Mi voltai e vidi Liam accanto a me, e quella sensazione, quel bisogno di sfogarmi e fare a pezzi la nostra storia, tornò a farsi sentire prepotente.

Mi irrigidii e lui lo notò, ma si sedette comunque al mio fianco e mi parlò all'orecchio, come se avesse avuto paura che qualcun altro avrebbe potuto sentirci e quindi scoprire ciò che aveva da dirmi. Fui stordito dal suo profumo, che mi era mancato tantissimo, e non capii più nulla. In qualche modo lo seguii tra le vie della città, senza ricordarmi di avergli dato il consenso di portarmi da qualche parte.

Di quella notte ricordo vagamente qualche sua parola, ma è nitido ancora oggi nella mia mente il portone al quale arrivammo, quello della sua vecchia casa, quella che era stata anche nostra per un po'.

«Zayn», mi chiamò, ma non gli risposi. Fui capace di offrirgli soltanto il silenzio per diverso tempo, mentre studiavo i nuovi particolari di quell'abitazione: era stata arredata, ripulita, resa accogliente. Forse ci viveva da solo, lì dentro.

Ricordo, poi, di essermi diretto verso l'uscita quando il buio inghiottiva ancora la città. Quanto tempo avevamo trascorso in silenzio?

«Zayn», parlò alle mie spalle. «Per favore, ri-»

«Non chiedermelo: non farmi restare stanotte», dissi. Non potei vederlo, ma lo immaginai stringersi nelle spalle e accusare il colpo. «E non domandarmi se sto bene: non ho la risposta

Poi mi chiusi la porta alle spalle, in un vortice di malinconica felicità. No, non la conoscevo la risposta.

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