La soffitta

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Le scale si arrampicavano nere su per i muri scrostati, fiocamente illuminati dagli ultimi raggi di una giornata grigia e spenta che entravano da vetri sporchi; i gradini, perdendosi nel buio lungo la rampa, erano rigati di venature brune. L’immagine fuggente ed indistinta di una figura attraversò il pianerottolo, dopo aver indugiato un attimo volgendo lo sguardo verso quell’ascesa nell’oscurità; aprì una porta senza colore e la richiuse alle spalle.

Il sole morì tra nuvole di polvere, lontano.

Le luci gialle dei lampioni stradali illuminavano la camera attraverso le persiane che le lasciavano filtrare in strisce acide. Sul letto in disordine, lacrime e macchie di sporco. Intorno, lattine, stracci che dovevano essere indumenti, uno walkman dimenticato. La porta si aprì con un fascio di luce; l’ombra sulla soglia non parve rivolgersi a nessuno in particolare con la sua voce roca;

– Sei lì?

Non venne risposta dalla figura a malapena distinguibile nell’oscurità; l’ombra si avvicinò:

– Elena, non fai altro che startene rinchiusa in camera tua a dormire, ¬–  proseguì la voce; – almeno potresti fare finta di farci compagnia mentre mangiamo!

La ragazza si riscosse passandosi una mano che risaltò bianca nel nero della notte sugli occhi; non vedeva nulla oltre il mare di ortensie brunite in cui navigava, come bruciate dalla luce dell’inferno. Volse il viso dalla parte della finestra, sempre in silenzio.

Un odore di sporco e solitudine si risollevò dal letto su cui si era appoggiata l’ombra;

– Fa’ quello che vuoi. – riprese la voce, – Sei una fallita da quando sei nata. – quindi scomparve nella luce malsana della porta che si richiuse cigolando sui cardini.

        Sei una fallita da quando sei nata.

Con uno sforzo, Elena allungò una mano oltre la sponda del letto e raggiunse lo walkman, si mise le cuffie e dimenticò la voce; chiuse gli occhi nel cinguettio di un’alba che si andava disegnando come in un quadro sempre più luminoso nella sua mente ed avvertì il sangue ritemprarle le membra, in un’aura dolce e vigorosa, mentre il mondo con le sue tempeste svaniva dietro un velo di nebbia argentea, lontano, sinché scivolò insensibilmente dalla visione in sogni scintillanti.

L’orologio sul muro segnava le tre di notte passate. Il frastuono della strada rimbombava nella stanza nera, unico rumore; le luci si rincorrevano riflettendosi sulle trasparenze della camera. Nausea. Elena si sollevò sul letto lentamente, sforzandosi di non vomitare; la camera ruotava intorno a lei come una giostra fuori controllo, le sorgenti di sogno si erano disseccate. Cercò di alzarsi, ma cadde pesantemente sul pavimento; il suo corpo leggero sembrava dolere in ogni parte quando tentò a fatica di reggersi in piedi; poi, in un incubo senza fine, un passo trascinato dietro l’altro, in un tempo dilatato come un lombo di carne tra i ganci di un invisibile macellaio, raggiunse il bagno strisciando. Mentre vomitava, la luce spenta, da oltre il tramezzo giunsero frasi incomprensibili, come bocconi di cui dovesse liberarsi, sino ad essere scossa violentemente in spasmi taglienti come spade.

Lacrime di lira sembrarono piovere visibilmente intorno a lei, gocce d’argento che risalivano la corrente dello spazio e del tempo; canti di vestali di un tempio di vetro dimenticato, fluendo in lei come il giardino di sogno dalle acque fiorenti di fuoco ghiacciato. Elena sentì gli spasmi placarsi poco a poco. Non era la prima volta che avvertiva quella musica, come un canto di benedizione nella sua vita maledetta. Non era la prima volta che si snodava dal nulla senza preavviso, quando si era sentita sola, sperduta, ad un passo dalla morte, ed era tornata indietro, come richiamata dalla forza invincibile di un incantesimo che originasse dalla potenza stessa delle stelle. Ansimò profondamente; si rimise in piedi, ora salda, viva e quasi lucente in quella tenebra. Chiuse gli occhi, come se la musica potesse abbagliarli tanto era limpida e pulita, alta come un cirro in inverno. Dopo qualche minuto, il celeste canto smise di colpo.

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