Futuro prossimo - secondo capitolo

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Un anno, un maledetto anno era passato dalla loro vittoria al Festival di Sanremo.
Ormai sentiva quella immensa gioia come un lontanissimo eco, sempre più flebile mentre la rabbia gli saliva su dallo stomaco fino alle tempie e gli appesantiva la testa.
L'angoscia si era impadronita delle sue giornate per un motivo stupido, ridicolo: il Festival di Sanremo e le polemiche che ne erano seguite.
Si ritrovava a pensare a Niccolò e alla sua frustrazione, alla boria dei giornalisti, a tutti quegli imbecilli che credevano giusto ribaltare un voto espresso dal pubblico perché era scritto nel regolamento. Come se le ingiustizie più gravi non fossero quelle scritte nero su bianco. Pensava a come avevano trattato Niccolò e alla sua delusione.
E si accorgeva di odiare Sanremo mentre l'anno precedente quella cittadina era stata il luogo dove la sua vita era ripartita.
Dove aveva lasciato l'amarezza delle polemiche sul plagio e abbracciato il futuro con speranza credendo veramente che il bene alla fine vincesse.
Il 7 febbraio invece gli era bastato arrivare a Sanremo, con un mega ritardo dell'aereo tra l'altro, che aveva subito sentito che qualcosa non andava.
Era stata una sensazione strana che aveva scacciato subito via ma si era preoccupato perché sapeva di avere delle specie di premonizioni, in realtà probabilmente era la sua fortissima sensibilità ed empatia che gli permetteva di cogliere l'atmosfera dei luoghi e quel giorno sentiva il cielo cupo pesare intorno a lui.
Poi tutto era precipitato velocemente, la cena, un paio di incontri e la realtà che lo circondava era sempre più buia; aveva visto l'odio e il disprezzo nelle facce dei giornalisti, era odio e disprezzo verso di lui, verso Niccolò, per la loro origine e la loro storia.
Fabrizio si era presto rifugiato nell'albergo, non voleva fare cazzate e rovinare la carriera del ragazzo.
Temeva di dire stronzate, l'equilibrio era estremamente precario.
Le interviste cancellate, il duetto fatto con tutto il cuore che aveva ma con un paio di sbavature. Poca cosa ma per quella sera pretendeva la perfezione. Ma neanche quella sarebbe bastata, nulla sarebbe bastato per chi aveva da anni deciso che lui non valeva niente.
Tra troppa gente e troppe parole il giorno precedente aveva incontrato il suo ricciolino, sì perché nella sua mente era ancora così che lo chiamava, per una ventina di minuti di inutili convenevoli.
Aveva aspettato Sanremo con trepidazione anche per rivederlo, soprattutto per rivederlo.
A dicembre, quando Cristicchi gli aveva chiesto di accompagnarlo sul palco dell'Ariston per i duetti, non aveva potuto accettare perché aveva già dato la sua parola a Niccolò e gli era dispiaciuto tantissimo, ma si era detto che la cosa importante era che Ermal fosse lì, che avrebbe passato del tempo con lui.
E invece non c'era stato il tempo ma neanche la volontà di stare insieme.
Appena lo aveva incontrato il suo sguardo, la sua risata, il calore del suo abbraccio, il tocco della sua mano sulla spalla, il suo profumo, lo avevano assalito ma era stato subito chiaro che non c'era modo che potessero riempire il vuoto che la sua assenza gli aveva scavato nelle viscere giorno dopo giorno per mesi.
Fabrizio aveva avuto voglia solo di allontanarsi da quel caos, da quel Sanremo che si stava inghiottendo quello precedente e dalle macchinazioni schifose di giornalisti e falsi esperti.
Guardandoli negli occhi aveva intuito che il complotto era molto più serio di quello che gli aveva detto il discografico di Ultimo.
L'aria era estremamente pesante e sentiva il suo respiro affannato, riprese a respirare normalmente solo quando riuscì a tornare al suo albergo.
Tornato a Roma aveva continuato a soffrire per un Festival terminato nel peggiore dei modi.
Si distraeva con il lavoro che procedeva bene, la base di molte tracce era già terminata e con i colleghi scherzava e rideva.
Ma quando era solo l'angoscia tornava a tormentarlo, sentiva le ingiustizie consumatesi al Festival come frustate sulla sua pelle e la mancanza di Ermal sempre più forte.
Non si perdonava il fatto di averlo considerato poco a Sanremo, in pratica lo aveva evitato.
Ma non era riuscito a comportarsi diversamente perché nei momenti in cui sentiva di avere tutti contro aveva sempre avuto il bisogno di stare solo.
Eppure il ricciolino era l'unico che lo avrebbe potuto scuotere da questo stato depressivo tipico del suo carattere, come l'anno precedente a Sanremo.... ma tutto era così maledettamente diverso. Steso sul letto con l'ennesima sigaretta in bocca a guardare il soffitto, l'unica cosa che desiderava in quel momento era Ermal che lo consolasse e rassicurasse che nel futuro sarebbe ancora uscito il sole. Ma dopo la sera del suo concerto all'Olimpico aveva visto Ermal sempre più raramente e non avevano neanche più sfiorato il tema dei loro sentimenti.
E si erano allontanati, lo aveva allontanato.
Come poteva ora dirgli che gli serviva, che non voleva continuare senza di lui, che aveva bisogno del suo sostegno.
Fabrizio aveva sempre pensato all'amore come condivisione e scambio ma in quel momento non aveva nulla da dare a Ermal, voleva solo prendersi qualcosa che lo facesse stare meglio.
La mattina era arrivata senza che gli occhi si chiudessero, le ore di sonno nell'ultima settimana erano state troppo poche e con questo ritmo sentiva che sarebbe crollato presto, già i suoi pensieri non erano più lucidi.
Giornata in studio; problemi tecnici su un paio di tracce; la casa discografica che lo assillava su questioni triviali; la voce che non accennava a migliorare, non riusciva a tenere le note e graffiava troppo; Giada aveva trovato l'ennesima scusa per non portargli i bimbi. Ennesimo tramonto, stanchezza accompagnata da estrema irrequietezza che non gli permetteva di dormire.
Aveva provato a distrarsi in tutti i modi per interrompere i pensieri circolari che gli si ripetevano in testa, il tentativo di farsi una sega guardando un porno era presto naufragato perché il suo corpo non rispondeva agli stimoli, guardare una serie al pc era stato inutile perché non riusciva a mantenere la concentrazione, il tentativo di leggere aveva avuto risultati anche peggiori perché oltre a dover rileggere la stessa riga più volte gli occhi gli bruciavano.
La bottiglia di vino aperta venti minuti prima era appoggiata vuota sulla mensola ma il suo contenuto non gli aveva dato nessun sollievo.
Prese la chitarra e suonò in poltrona davanti alla vetrata fissando il buio della notte interrotto dal faretto giallo accanto al cancello. Uscivano note grevi, suoni tristi e monotoni, la voce che li accompagnava era rauca.
Fabrizio si interruppe dopo dieci minuti, sbatté la chitarra sul divano con rabbia e camminò per la stanza.
Doveva riuscire a non pensare mentre l'unica soluzione che gli appariva davanti era il vecchio rimedio. Una dose di droga e l'angoscia e la rabbia si sarebbero dissipate e finalmente sarebbe tornato in pace con il mondo e con se stesso.
Negli anni, nei momenti più bui, quella sirena aveva sempre lanciato il suo richiamo con promesse di momenti felici ma spesso era stato un canto fugace, era bastato guardarla negli occhi e vedere quanto in realtà fosse brutta per farla smettere di cantare.
Ma stasera la bruttezza della sua sirena non gli interessava, aveva il bisogno di abbracciare quello schifo per avere un po' di sollievo. Si ritrovò in sella alla sua moto a cercare uno spacciatore, sapeva come funziona la vita notturna a Roma e ne trovò subito uno, un nigeriano sui trent'anni probabilmente arrivato da poco in Italia perché conosceva molto poco la lingua.
Per fortuna non lo riconobbe, ma sapeva bene chi sia fosse, quello che malgrado l'astinenza non aveva mai smesso di essere, un tossico.
Lo spacciatore aveva quello che gli serviva, il costo irrisorio, la qualità scadente ma gli andava bene così, la voleva subito. Si addentrò in un vicolo e l'assunse in un angolo. Poi si lasciò cadere per terra appoggiato al muro scrostato di una palazzina di quattro piani nel brusio di una comune notte romana. Finalmente era tranquillo e poteva riposare, accolto da braccia grandi e morbide si lasciò cullare e trasportare in un mondo benevolo.
La mattina lo trovò tremante a vomitare bile sull'asfalto. Aveva dormito fuori in una notte di Febbraio e le mani e i piedi erano pressoché congelati, non avevano nessuna sensibilità.
Quando riuscì ad alzarsi le gambe non lo ressero, si accasciò al suolo sul suo stesso vomito. Il cellulare iniziò a suonare. Lo afferrò dentro la tasca della giacca e riuscì ad estrarlo con molta difficoltà perché la mano gelida non rispondeva agli ordini del cervello.
Quando vide "ricciolino" sullo schermo telefonico si mise a piangere.

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