To win

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Quelle cose che non dovrebbero nemmeno accadere, eppure irrimediabilmente ti segnano la vita: a eventi del genere, nelle freddi notti di Gorizia, volgevo i miei pensieri, prima di perdere contro il sonno, nemico dei creativi, tra uno sbadiglio e un altro, mentre la mano macchiava il foglio facendo avanti e indietro.

Mi era sempre piaciuto disegnare. Quando la mamma si distraeva, scappavo dal salotto dove si ostinava a darmi lezioni di violino e mi rintanavo in camera a disegnare. Capitava che la chiamassero al cellulare, che fosse urgente, e io ero contentissima di avere qualche minuto libero per continuare a riempire le forme più bizzarre che potessero venirmi in mente. Gettavo via il violino dove capitava e non so quante volte ho rischiato perfino di romperlo, senza che me ne preoccupassi. E riprendevo a disegnare, lontana dallo stridore di quelle corde.

Mamma diceva che avevo un dono. Tutto iniziò per sua iniziativa. Diceva che ero un prodigio della musica e che fosse giusto che mi cimentassi anche nel canto. Così, dopo avermi costretto a partecipare alla recita scolastica a cui non avrei voluto assistere nemmeno tra gli spalti, accettò al posto mio la proposta della maestra di cantare. Non c'era nessun altro, Tijiana. Toccava a te. Me lo ripeté fino a quando non mi esibii e smisi di lamentarmi della sorte che mi era toccata. Sul palco, quella volta, sentii le guance bruciare.

Non mi era mai dispiaciuto stare al centro dell'attenzione. Preferivo starmene per conto mio non perché mi sentissi a disagio con gli altri. Solo, mi sentivo meglio quando non c'era nessuno a guardarmi. All'idea che ci fosse stato un intero teatro ad osservarmi quella volta, ero terrorizzata. Eppure, non appena iniziai a cantare ciò che dovevo, incominciai a non temere più niente. Non c'era più il signore col pancione che mi guardava col pollice tra le labbra, o la signora anziana appisolata sulla spalla del vicino di posto. Non c'era più niente. Solo io e le cose che cantavo: mi si  materializzarono tutte davanti, non appena le pronunciai.

Dopo quella sera, iniziai ad adorare usare la voce perché era stato come disegnare. Pensare a cosa volevo e vedere che prendeva inesorabilmente forma davanti ai miei occhi, senza troppa fatica.

Così anche il violino mi piacque di più e sentivo sempre di meno il dolore di collo e spalle quando dovevo sistemarcelo in mezzo.
Per la gioia di mia madre e anche quella mia, le persone acclamavano le mie esibizioni. Capitò che ricevessi un caloroso applauso e sentiti complimenti alla recita, e da allora tutti mi chiedevano, dopo ogni spettacolo, se alla prossima occasione avessi partecipato. Il mio consenso a far parte del coro divenne d'obbligo e soltanto alla fine delle medie potei tirare un sospiro di sollievo per una meritata pausa.

Poi iniziarono le superiori. Continuavo a disegnare, a cantare e ad usare il violino. Disegnavo a lezione di matematica, trasformando le espressioni per me incomprensibili in frasi da dedicare ai compagni, cantavo sotto la doccia e suonavo il violino anche nei miei sogni. Quando due simpatici fratelli del quartiere scoprirono questo mio lato da artista, mi pregarono di formare una band e ci divertimmo per tante fantastiche estate a dimenarci nei locali della città, diventammo amici e tra un concerto e un altro, riuscii perfino a trovare il tempo di tingermi i capelli del colore che avevo sempre desiderato.

A mio padre prese un infarto, quando mi vide tornare a casa da un viaggio con Luca che avrebbe preferito proibirmi- se non avessi insistito indecentemente- con i capelli arancioni. Dopotutto, si era da poco rassegnato a vedermi con dei simpatici puntini neri sulle guance. Ecco, la storia dei puntini non fu facile da accettare per le mie compagne di scuola, che tra di loro si domandavano il motivo della mia scelta di spostarli dal contorno occhi al pieno centro della faccia. Non glielo dissi mai che non sopportavo che mi avessero tutte copiato e che non avrei mai tollerato da chiunque un secondo tentativo.

Per fortuna, non arrivò mai. Così, non arrivò mai da parte mia la spiegazione ai puntini che mi resero famosa in tutto il Liceo: non avrei mai immaginato di raccontarmi, di svelare il perché delle mie guance, a miliardi di persone di cui non conoscevo neppure il nome, di cui non riuscivo a mettere a fuoco nemmeno il viso. Amici era una scommessa persa, un pegno da pagare dopo una piovosa notte d'Estate spesa ad ammazzare il tempo facendo ruotare una bottiglia di birra vuota.

I Castings un tanto non mi prendono e posso tornarmene a casa, la maglia nera un cazzo, mi hanno presa davvero, quando torno a casa? quella verde un fanculo, finalmente e quella blu un mo devo spaccare, io a casa non ci torno.

Tutto è iniziato per il capriccio di amici scemi, poi è continuato per il mio. Io che c'ho sempre il brutto vizio di affezionarmi ad ogni cosa per troppo poco tempo. Eppure, fintanto che mi prende, mi ci immergo fino a soffocare.

E voglio sempre averla vinta, anche se non ci credo, anche se potrei avere dell'altro. A casa mia, tutto è una questione d'onore: non avrei mai perso quell'occasione. Anche se non l'aspettavo, ora che mi stava sorridendo, non l'avrei tradita. E non avrei permesso a qualcos'altro di distrarmi dalla vittoria.

Ma c'era un altro premio che mi attendeva e io pensai scioccamente di gareggiare per entrambi. Fu per me la mia rovina. Mi divisi in due persone che volevano due cose diverse, ma le volevano con la stessa forza e con altrettanta fretta.

Non avrei mai perso Amici, ma non avrei perso neppure lui. Avrei perso me stessa piuttosto, pur di dimostrare che io non perdo mai.

To do everything I want {Tisherto}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora