Ricordo tutto di quel giorno, come se fosse ieri.
Stava lì, seduto, immobile con gli occhi fissi sul pavimento.
Prima di aprire quella porta arrugginita avevo un’immagine totalmente diversa di lui.
Sono sempre stata una di quelle persone che preferiscono non sentire racconti o giudizi altrui per non restarne influenzata. Volevo conoscerlo e farmi la mia opinione, da sola.
Se l’avessi saputo prima, se riuscissi a liberarmi da queste stupide e limitanti regole che tendo sempre a fissarmi, avrei potuto chiedere qualche informazione, sarebbe sicuramente bastato a farmi rifiutare, a tornare indietro, ringraziare, voltarmi e sparire.
Anni di studio, master, dottorato e specializzazioni non possono prepararti a certe situazioni e sicuramente nessuno mi aveva preparato a questo!
In realtà quando entrai in quella tetra stanza che il carcere ci aveva messo a disposizione, ebbi una piacevole sensazione, sembrava tutto molto facile, veloce.
L’ambiente era deserto. Le pareti scure, usurate dal tempo. Chissà quante ne hanno viste quelle mura, quanti pianti hanno raccolto, quante urla hanno soffocato, quante suppliche hanno udito. È qui che capisco cosa intendesse mia nonna quando mi nascondevo in camera da piccola senza rivelare perché e con aria delusa mi diceva: “Fortuna che i muri non parlano”.
Al centro della stanza vi era un tavolo lungo, quadrato che divideva due sedie poste una in fronte all’altra. Nient’altro riempiva quel posto depresso e l’enorme vuoto creava un fastidioso e inquietante rimbombo, ma questo era il meglio che potevano permettersi.
Poi c’era lui, in mezzo alla stanza. Se ne stava seduto in maniera del tutto spavalda, lo capii subito: si sentiva furbo, un passo avanti al resto del mondo. Le gambe erano allungate e divaricate quasi come se stesse cercando di sdraiarsi. Le mani, rilassate, unite dalle manette, poggiavano sulle cosce. La parte superiore del suo corpo era completamente abbandonata sullo schienale della sedia e tutto il peso lasciava ad essa il compito di sorreggere il fardello di un uomo, apparentemente stanco, ma al contempo troppo tranquillo per trovarsi lì. La testa ciondolava verso il pavimento e mi impediva di vederlo chiaramente in faccia. Mi sedetti sull’unica sedia vuota, di fronte a lui. Ora, solo un tavolo ci divideva. Fu in quel preciso momento, quando mi abbassai al suo livello fisico, che si degnò di sollevare la testa e guardarmi.
I suoi occhi! Azzurri come il mare. Freddi come il ghiaccio.
Il suo sguardo mi fece sobbalzare. Sentii una leggera scossa lungo tutto il corpo. Aveva fissato le sue pupille perfette nelle mie, non diceva nulla, ma quello sguardo mi impediva di muovermi, era come una minaccia, come se mi incatenasse con quegli occhi alla sedia, mi impediva di respirare, di ribellarmi. Riusciva a mettermi a disagio solo con uno sguardo, fu esattamente quello il momento in cui capii che non sarebbe finita bene.
<<Ivan Martino. Trent’anni pregiudicato. Undici omicidi, tutte donne molto giovani, stesso modus operandi>>. Non ebbi il coraggio di continuare a leggere la cartella che tenevo di fronte a me, aperta sul tavolo. Così decisi di cominciare dall’inizio e la chiusi. <<Allora Ivan, io sono la Dottoressa Elena Costa. Lo sai perché sono qui, oggi?>>
A quella domanda finalmente spostò il suo raccapricciante sguardo e lo diresse altrove, poi sorrise. Fu più un ghigno e a dir la verità mi urtò particolarmente.
<<Una donna. Astuto. L’hanno mandata da sola qui, di fronte a me per dichiarare la mia infermità mentale ed evitarmi l’ergastolo, per finire rinchiuso in uno di quegli orribili centri per malati mentali.>>
La sua voce aveva un tono tremendamente melodico. A volte, nel pieno silenzio della notte, mi sembra ancora di udire quel soave suono. Devo ammetterlo: era un uomo molto affascinante. Curato, ben vestito, caratteristiche rare per un detenuto. Mi chiesi subito che ci facesse lì, sembrava completamente fuori posto.
<<Ti infastidisce che io sia una donna Ivan?>>
<<Nessun problema per me. Mi chiedo solo se lei saprà portare a termine un compito così arduo senza lasciarsi influenzare dalle emozioni. Insomma, io sono quello che lo stato definisce assassino del suo stesso sesso.>> Accompagnò queste parole con una breve rotazione degli occhi verso il cielo e il solito sogghigno che descriveva già molto della sua personalità anche se era ancora presto per arrivare ad una precisa conclusione.
<<Lo sai perché? ritieni sia ingiusto e inappropriato? Sai perché sei qui Ivan?>> Cercavo di sembrare il più amichevole possibile. La parte più brutta del mio lavoro è proprio questa. Ogni giorno hai a che fare con assassini, stupratori, pedofili e devi conquistarti la loro fiducia, devi nascondere il tuo timore e sembrare di essere perfettamente a tuo agio, sembrare un’amica pronta ad ascoltarli, ad aiutarli, devi soffocare il tuo disgusto e cercare di vedere il lato umano che si cela dietro il volto di violenti criminali.
<<Cosa vuole sentire esattamente dottoressa?!>> il suo tono era irritantemente sarcastico. Protese il suo corpo in avanti staccandosi dallo schienale della sedia per appoggiarsi sul tavolo e riuscire a guardarmi ancora più profondamente negli occhi. Ebbi una strana sensazione, come se fossi stata violata.
Stavo formulando una risposta professionale, ma non me ne diede il tempo e proseguì sfacciatamente sempre col suo sguardo fisso su di me: <<Vuole che le racconti di come ho ucciso quelle ragazze? Vuole sentire come le ho abbindolate, come le ho attirate a me per spogliarle della loro breve vita? Cosa ho provato mentre le stupravo? O vuole che le descriva come gridavano mentre mi imploravano di smettere? Cosa la eccita di più?>>.
Un tonfo al cuore.
Quelle parole mi arrivarono dritte in faccia come un potente schiaffo.
Non potevo credere a ciò che avevo appena udito. Non era certo la prima volta che mi trovavo faccia a faccia con un disgustoso assassino, ma era tutto completamente diverso. Non riuscivo ad ammetterlo, ma fin dal momento in cui lo vidi, non riuscii a provare schifo. Insomma, lui era completamente diverso dalla feccia umana che si incontra nel mio lavoro. Quest’uomo era bello, giovane, attraente, tre componenti letali in grado di attirare ogni ingenua ragazza. Forse proprio il suo fascino era il segreto con cui approcciava ragazzine da stuprare ed uccidere. Eppure, nonostante le foto, le cartelle, le prove che mi avevano fornito e nonostante lui non si fosse mai proclamato innocente, non riuscivo a credere che potesse essere opera sua. Non poteva essere lui.
<<Sono qui per valutare il tuo grado di intendere e di volere. Io posso farti evitare l’ergastolo Ivan>>
<<Le risparmio la fatica dottoressa. Le posso assicurare che ero totalmente cosciente in ogni momento. Non sono schizofrenico, bipolare, pazzo o qualsiasi altra cosa cerchiate di trovare in me. Io sono questo: sono il più grande figlio di puttana che lei incontrerà mai nella sua vita, dottoressa>>.
“Il più grande figlio di puttana che incontrerà”.
Quella frase ancora mi rimbomba nella testa dopo tutti questi anni. Ancora sento il suo sguardo addosso.
Avevo sentito troppo. Era solo il primo incontro conoscitivo e di solito, in realtà terminavo in un giorno massimo due. Non avevo avuto le risposte che mi servivano, ma percepivo un disperato bisogno di uscire da quella stanza. Era come se mancasse l’ossigeno, mi sentivo ubriaca, anestetizzata dal suono di quella voce e drogata da quegli occhi. Mi alzai di scatto e terminai cercando di riprendere il controllo:
<<Per oggi direi che è tutto. Continueremo un altro giorno quando sarà più disponibile ad un vero colloquio. Si ricordi che io sono stata mandata qua dal suo avvocato per aiutarla. Non sono io il nemico in questa storia>>.
Mi voltai in fretta, non volevo dargli il tempo per rispondere.
Questa manche dovevo chiuderla io.
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DOMINIO MENTALE
Mystery / ThrillerBasta una frazione di secondo per stravolgere la vita di una persona. La Dottoressa Elena costa aveva passato l'adolescenza a programmare tutto il suo futuro. Trascorreva le giornate immersa in quel lavoro per cui aveva duramente lottato, ma che co...