Pov. Jungkook
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Scendo lentamente le scale, misuro ogni passo, come se stessi sfilando per raggiungere una meta irraggiungibile. La signora Yeseul è già arrivata all’ultimo gradino e, con aria insolente, mi fissa in quella veste nera con un fiocco sottile a contornarle il colletto dell’abito.
I capelli di un grigio quasi malinconico, la postura scomposta e le braccia sui fianchi la fanno sembrare più anziana di quanto già non sia.Finalmente, dopo attimi sembrati eterni, i gradini sotto le mie suole finiscono. Varco la soglia dell’atrio e, con fare incerto, entro nel salone principale ormai troppo conosciuto, pieno di quadri antichi che sembrano contenere ogni più piccolo sentimento provato in quello spazio.
Lì i bambini arrivano e se ne vanno, lì finisce il loro periodo di vuotezza assoluta e ricomincia una vita nuova, nuovi cari, nuove esperienze. Ma per persone come me, quello spazio raffigura solo una consuetudine; ogni volta mi sento come se stessi girando in tondo,tornando sempre nello stesso medesimo punto dopo circa tre mesi dall’affido.
Vicino al camino in pietra, due persone, per l’esattezza un uomo e una donna, attendono fissandosi con occhi vispi e eccitati. Forse hanno una quarantina di anni e dai loro cappotti si può chiaramente capire il loro ceto sociale: le curve della donna fasciate da un cappotto vistoso di un colore chiaro, invece il soprabito dell’uomo è impeccabilmente stirato, nero ed elegante.
“stanno aspettando me” penso, rincuorandomi del fatto che questa volta non è una chissà quale famiglia male intenzionata, sembrano brave persone.Dopo qualche attimo si accorgono di noi.
“Salve signori Kim, ecco il ragazzo di cui vi avevo parlato. Suvvia Jungkook, presentati” sussurra la direttrice, porgendomi una occhiataccia a causa del fatto che continuassi a fissare la coppia davanti a me senza asserire parola.“Oh stia tranquilla! Sono sicura del fatto che ora lui sia diffidente, in fin dei conti non sa neanche i nostri nomi!” risponde la donna con fare dolce e comprensivo, poi continua porgendomi la mano lentamente,come se mi stesse chiedendo il consenso per stringerla :
” Piacere, il mio nome è Kim Seo Yun e se le pratiche andranno a buon fine avremo occasione di conoscerci come una famiglia”.
Ho visto i suoi occhi esitare, un lampo di incertezza passare in quel blu scuro delle pupille, come se, dicendo quelle parole potesse ferirmi o spaventarmi.
Per darle sicurezza afferro la sua mano con presa sicura, per farle capire che ho compreso le sue parole.“Jeon Jungkook, il piacere è mio”
rispondo educatamente ancorando lo sguardo al suo.
Lei sembra sollevata da quel macigno invisibile e subito dopo che aver sciolto le nostre mani l’uomo, si decide a prendere parola.“Kim Jung-Yong” si presenta stringendomi la mano con stretta possente.
La voce della signora Yeseul spezza il silenzio imbarazzante creatosi, invitando i signori a bere una tazza di tè e a sedersi sui divani lavati a dovere prima del loro arrivo.Fogli sono sparsi sul tavolino in cristallo sul quale è presente anche un set da tè in ceramica, con figure della dinastia Joseon.
Io so già cosa è impresso su quei fogli; la mia vita da questo giorno in poi dipende da due insignificanti firme, forse finalmente avrei potuto respirare un’aria diversa, forse finalmente sarei potuto uscire da questa gabbia di mattoni e quadri, potrei vivere come un adolescente normale, avere la prima cotta, soffrire per amore, studiare, avere voti alti e andare a scuola, senza tenere inutili lezioni private in quella stanza angusta.Quei fogli, probabilmente, mi daranno la libertà.
🌾🌾🌾//20 giorni dopo, 3 pm//
I signori Kim dopo quel giorno, tornarono svariate volte a farmi visita e nel frattempo procedettero anche con le migliaia di pratiche.Finalmente avevano firmato e, dopo una chiacchierata sembrata infinita, nella quale mi chiesero ogni cosa gli passasse per la testa, se ne andarono sotto lo sguardo attento della direttrice con un sorriso stampato sulle labbra che mi rimase impresso per tutta la sera.
Allora la felicità è così che fa sentire le persone : libere, leggere, come le ali di un uccello pronto a spiccare il volo e scorazzare nell’aria fresca, tra i fiori e l’erba ricoperta di rugiada.
Oggi, esattamente venti giorni dopo quel fatidico incontro, uscirò da questo posto angusto, che mi possiede ormai da troppo tempo.
La scorsa sera ho già impacchettato ogni cosa, ogni indumento e cianfrusaglia.
Ho posto la foto e la lettera con cautela sul fondo della mia valigia blu come la notte, sotto una catasta di vestiti, come se volessi proteggerli da qualcosa, nasconderli al mondo.Mi soffermo sulla mia figura nello specchio lungo e spoglio posto nella mia stanza: i capelli arruffati e con aria selvaggia, i lineamenti tesi e gli occhi vispi, indumenti meno trasandati di quella tuta slabbrata che indossavo venti giorni prima.
Una maglia bianca, di un colore accecante e puro, che mette in risalto i miei pettorali scolpiti a dovere; le gambe fasciate da un jeans slavato e le solite converse ai piedi.
In tutti questi anni vuoti di ogni sentimento vicino alla felicità, l’unica cosa di cui posso vantarmi è il mio corpo: tempo occupato a correre, liberarmi da ogni frustrazione, correre più velocemente, fino a togliere il fiato, fino a far diventar geloso un tornado lungo una costa, fino a far bruciare i polmoni dalla fatica.
Prima di quel fatidico giorno di 9 anni prima ero un bambino energico, pieno di vita, colori, speranze. Correvo, partecipavo a stupide gare competitive che forse ora mi metterebbero sotto pressione, ma prima, con gli occhi dei miei genitori che mi fissavano dagli spalti e con le loro grida esultanti, ero così gioioso.
Faccio mente locale, ricongiungendo lo sguardo a quello riflesso nello specchio, prendo un lungo respiro e saluto per la cinquantaseiesima volta quella topaia, troppo impersonale, troppo angusta e piena di lacrime.
Raccolgo il borsone posto vicino ai miei piedi, stringo forte la maniglia in pelle e do un ultimo sguardo fuori dalla finestra.
Forse la vista sarà l’unico angolo di pace e spensieratezza che mi mancherà di questo posto.
Esco dal grande cancello in acciaio posto all’esterno del giardino,ormai ricoperto di foglie secche e arbusti senza vita; alla sua chiusura le porte cigolano, mi isolano da quel mondo che non mi è mai appartenuto.
Prima di uscire ho salutato la signora Yeseul, un semplice addio e una stretta di mano. Niente di più, niente segni d’affetto, niente effusioni inutili. Niente.Scorgo una macchina nera e lucida subito dopo l’uscita. Davvero sono così benestanti? Una Infiniti nera e luccicante, così tanto che sembra possa abbagliarmi da un momento all’altro, giace al lato del vialetto sterrato.
Il signor Kim si accorge di me dalla specchietto del guidatore e, dopo aver avvisato la moglie della mia presenza, noto entrambe le portiere aprirsi simultaneamente.
“Jungkook! Che bello rivederti, non vedevamo l’ora arrivasse questo giorno. Come ti senti?” esclama forse troppo esuberante la signora Kim. Intanto l’uomo, con aria amichevole, ha già afferrato la mia valigia e la sta ponendo nel portabagagli posteriore.
Alla domanda della donna rimango interdetto. Come sto? Mi sono mai chiesto, come mi sento?
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Ehy!
Ho deciso di pubblicare già il secondo capitolo così da poter aggiungere più parti periodicamente.
Come avrete notato la narrazione della vicenda è lenta e per ora non è dinamica, ma è proprio il mio intento, visto che dopo ci sarà tanto da seguire!
xoxo, yoonhyuqn
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**•̩̩͙✩•̩̩͙*˚LIGHTEN GLOOM˚*•̩̩͙✩•̩̩͙*˚* //taekook
Fanfiction"E se sprofondassi nuovamente nell'oscurità?" pronuncia flebilmente. "Il buio non ti appartiene, Jungkook, guarda quegli occhi" mi accarezza la guancia delicatamente. "Così luminosi, sognanti, desiderosi. Così veri.." continua a cullarmi con le su...