Capitolo 1 - Porpora - Prima parte

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Quel maledetto bastardo mi aveva lasciato. Come aveva potuto farlo?

«Sono impegnato con il lavoro». «Scusami se non ti ho richiamato». «Perdonami, ma non posso venire da te questo weekend». Tutte stronzate, tessute per prendersi gioco di me piuttosto che tirar fuori le palle e dirmi la verità. E io, stupida ingenua, ci avevo creduto. Speravo che la sua scelta di accettare un lavoro fuori città non ci avrebbe diviso, ma avrebbe rafforzato il desiderio e l'impazienza di rivederci.

E, invece, dopo tre anni di fidanzamento, quando parlavamo di matrimonio e famiglia, non ha neanche avuto il coraggio di troncare la relazione affrontandomi faccia a faccia. Ha dovuto farlo per telefono, pronunciando qualcosa di orribile come: «Non vogliamo più le stesse cose. Stai per compiere trent'anni e ancora non hai un buon lavoro. Non vedo nessun futuro per noi». Anche sei mesi prima che partisse non avevo un buon lavoro, ma non si era fatto alcun problema a portarmi a letto e a dirmi: «Se dovessi rimanere incinta ne sarei felice».

No. Non poteva finire così. Dovevo vomitargli addosso tutto il disprezzo che sentivo logorarmi le viscere.

Perciò, presi l'auto e partii, diretta da Matera verso Roma. Cinque ore di viaggio all'incirca, ma ero decisa a fargliela pagare. A lui e all'amante che si portava a letto – perché ero sicura che se ne fosse trovata una.

Da casa presi soltanto un ricambio di jeans, una camicia e qualche banconota in più per il pernottamento che sarei stata costretta a fare prima di ripartire. Non prestai neanche particolare attenzione al tempo, indossando un cappotto nero primaverile anche se, pur essendo aprile, continuava a far freddo.

Non dissi niente a nessuno, solo a Giulia, la mia migliore amica, che altrimenti avrebbe mobilitato tutte le forze dell'ordine nazionale. Per tutta la durata del viaggio continuai a rimuginare su ciò che avrei dovuto dirgli. Non volevo passare per un'ex isterica ma desideravo umiliarlo. Elia doveva soccombere sotto le parole di disprezzo che gli avrei gridato, e forse soltanto allora mi sarei potuta sentire meglio.

Ero abituata a guidare fuori città, ma c'era una cosa che non sopportavo: la pioggia. Anni addietro, durante un acquazzone, l'auto su cui stavo viaggiando si era rigirata su se stessa; non mi accadde nulla, ma dopo quell'episodio avevo cominciato ad avvertire tensione quando dovevo spostarmi nelle giornate piovose. E come fosse un monito – qualcuno che volesse dirmi: "Ma che diavolo stai facendo?" –, all'altezza di Salerno iniziò a diluviare così forte che neanche la velocità massima dei tergicristalli mi permise di vedere la strada con chiarezza.

Riluttante, fui costretta ad accostare in un'area di servizio ma, poiché non ero l'unica in difficoltà, trovai il parcheggio strapieno. Proseguii un altro po', lentamente, e pensai di rientrare in autostrada fermandomi nella corsia di emergenza con le quattro frecce. Tuttavia, un cartello attirò la mia attenzione: Il Silenzio – Motel.

Era notte, faceva freddo e la pioggia non sembrava voler cessare.

Avevo pensato di viaggiare in notturna per evitare il traffico e il transito dei camion ma, dopotutto, fermarmi in un luogo caldo non sarebbe stata una cattiva idea. Almeno, mi sarei concessa un po' di tempo per riflettere sulla faccenda.

Svoltai in quella direzione e posteggiai accanto alle scale del portico. Era una struttura di nuova costruzione, bianca su quattro piani, in stile villa ottocentesca. Il parcheggio era sterrato e altre auto sostavano nello spiazzo. La cosa mi rincuorò: per qualche strano motivo quel posto non mi ispirava tanta fiducia.

Spensi il motore, chiusi tutti i bottoni del cappotto, presi la borsetta e lo zaino contenente il cambio e lasciai il veicolo movendomi il più velocemente possibile per evitare di farmi una doccia non programmata. Ma fu tutto inutile.

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