Capitolo ottavo (1°parte): Viaggio.

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N.B.: Per seguire meglio gli spostamenti di questo capitolo, vi ho lasciato una mappa nei media.

Punto di vista Rose

L'imbarco era stato disastroso. Saremo dovuti passare per il mare, percorrendo la costa in modo parallelo fino ad arrivare al porto di Nasia. Fra le tre città, non c'era terra abitabile, né percorribile. Era un'immensa distesa di ghiaccio e noi, in quel momento, ci trovavamo a sorvolarla da pochi metri d'altezza.

Il modello di auto che il vecchio guidava aveva un che di antico. Era ancora quel tipo di macchina che si serviva di propulsori troppo deboli per essere davvero efficienti, al contrario dei più moderni veicoli che percorrevano i cieli di Lesia, Nata e Nasia. Eravamo stati costretti a lasciare quasi tutti i bagagli a terra, perché non potevamo caricare troppo peso nell'auto: avevamo con noi solo la borsa di Nexra ed era stato difficile convincere l'anziano a imbarcare anche quella.

«Ho freddo» piagnucolò la bimba, stretta al mio petto. L'auto era circolare, composta da due sezioni dotate di sedili e divise da un muro: da un lato c'eravamo noi, stretti l'uno all'altro in quello spazio angusto e dell'altro la postazione del guidatore, dove c'era il trasportatore. Nexra era stretta al mio petto, chiusa nella copertina che portava sempre con sé ma che non sembrava riscaldarla in nessun modo.

Chiusi gli occhi, appoggiando il capo allo schienale del sedile. Con una mano le accarezzavo i capelli blu e con l'altra la stringevo a me, sperando che ci riscaldassimo a vicenda: il viaggio era ancora lungo, ma già sentivo di non poterne più. Tornai a guardare fuori dai finestrini, con la pelle d'oca sulle braccia, sentendo una morsa di paura stringermi il petto alla vista di quel paesaggio ghiacciato che non sembrava non finire più. Ovunque guardassi, non c'era altro che ghiaccio e a tratti acqua; pareva che anche gli animali non esistessero, in quel posto glaciale.

«RS, ho freddo» borbottò ancora la bimba, alzando il viso per potermi guardare negli occhi. Feci per risponderle, sttingendola ancora contro di me, ma mia madre, seduta affianco a me, mi precedette lasciandole una carezza sulla guancia prima di togliersi la giacca e avvolgerla con quella, iniziando a tremare subito dopo; la guardai preoccupata, anche se stavo scoprendo un lato premuroso di lei che mi era sconosciuto.

Pensando alla mia infanzia, vedevo tanti momenti felici, ma la freddezza di mia madre era una costante. Certo, in più di un'occasione mi aveva dimostrato di volermi bene, si era preoccupata per me a tempo debito, ma era sempre stata distante. Mentre ora, sembrava essere tutta un'altra persona con Nexra: questa fu una grande soddisfazione.

La mia attenzione venne attirata da un oggetto in movimento, in alta quota, che si avvicinava ogni momento di più. Socchiusi gli occhi, cercando di capire cosa fosse: un'auto, forse? Le mie domande ebbero risposta meno di un minuto dopo, quando il veicolo fu abbastanza vicino perché potessi distinguerne nitidamente i contorni.

Il segnale acustico che precedeva il blocco di controllo risuonò nell'aria poco dopo, facendo frenare la macchina su cui viaggiavamo. Il blocco di controllo era un segnale acustico che costringeva le auto entro una certa distanza dalla sorgente del suono a fermarsi alla sua attivazione, tramite alcuni meccanismi che non conoscevo. Erano usati spesso in situazioni estreme, quando c'era bisogno di fermare delle auto in fuga o anche solo per dei controlli a sorpresa nelle strade cittadine.

L'auto, di proprietà di quelle che supposi fossero le guardie civili, scese di quota fino ad accostarsi a noi e una passerella magnetica scivolò nella nostra direzione, ancorandosi al veicolo datato sui cui viaggiavamo. Per un momento, mi sentii sollevata: forse le guardie avrebbero potuto mettere un punto a quel viaggio infinito, che mi aveva fatto dubitare anche solo del fatto che il vecchietto alla guida conoscesse la strada per Nasia. Ma quale sarebbero state le conseguenze? Era una traversata illegale, alla fine.

La porta laterale dell'auto sconosciuta si aprì e ne sfilarono fuori due uomini, in divisa. Non li avevo visti prima perché i finestrini della loro auto erano oscurati, ma non ci misi molto a capire che in loro c'era qualcosa che non andava: sulla giacca, a destra, riportavano uno stemma sconosciuto all'altezza del petto. Era un ovale dai contorni rossi, stampato sulla stoffa nera della divisa, con due strisce del medesimo colore che lo attraversavano orizzontalmente.

Una bruttissima sensazione mi assalì e strinsi più forte la bambina a me. Il motivo mi era sconosciuto, ma sentivo un macigno d'ansia e paura crescermi sul petto: l'istinto di scappare era forte, ma eravamo bloccati in quella macchina.

Mio padre mi poggiò una mano sulla spalla «Va tutto bene, non farti prendere dall'ansia» mi riprese, regalandomi un sorriso rassicurante come contorno alle sue parole. Provai a sorridere a mia volta, anche perché Nexra mi stava guardando con aria spaesata, come a chiedersi cosa stesse succedendo. Come potevo spiegarlo a lei se non lo sapevo neanche io?

Diedi un'ultima occhiata a mio padre, prima di tornare a guardare fuori. Lui, al contrario di mia madre, era sempre stato una persona molto estroversa ed espansiva: da piccoli era solito passare molto tempo con noi e, anche se nel tempo la sua presenza era stata assorbita dalla sua ossessione di accumulare più punti persona possibile, non ci aveva mai negato il suo affetto.

Tornai a concentrarmi su quanto stava accedendo fuori: l'anziano che ci aveva condotti fin qui era sceso a sua volta dall'auto, salendo sulla piattaforma che univa le due macchine e avvicinandosi con aria esitante alla coppia di uomini in divisa nera. In sottofondo sentivo mia madre cercare di svegliare Cotan, che dormiva già da ore.

I miei occhi, intanto, seguivano ogni movimento delle persone che discutevano fuori. Uno dei due uomini in divisa, il più alto, tirò su la manica del braccio destro e sparò al vecchietto. Strinsi Nexra a me, sperando che non avesse nulla, mentre l'anziano cadde a terra pochi secondi dopo. Non dovevo guardarlo, lo sapevo, ma i miei occhi finirono sulla sua testa: un grande buco, grande quasi quanto il mio pugno, gli attraversava il cranio da parte a parte. Una ferita netta, quasi pulita, tipica delle gunners che si vedevano nei film.

L'altro uomo, basso ma più muscoloso, diede un calcio al cadavere, facendolo precipitare nel ghiaccio e lasciando solo una piccola pozza di sangue come traccia di quello che era appena successo. Mia madre era immobile, fissando il punto in cui era l'uomo fino a pochi secondi fa, e io sentii un conato di vomito premere per uscire. Mi alzai di scatto, poggiando Nexra sulle gambe di mio fratello, e vomitai tutto quello che avevo mangiato prima di iniziare il viaggio, nello spazio esiguo fra i sedili disposti in circolo.

Chi erano quegli uomini?

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