Capitolo 7: Fiamme Sporche

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Era davvero quello che Daphne avrebbe voluto? Davvero avrebbe voluto vedere la sua sorellina farsi del male in un modo tanto brutale, addirittura mutilarsi? No, certo che no.

Mi alzai di scatto dalla sedia e iniziai a camminare nervosamente avanti e indietro per la stanza, tenendomi la testa tra le mani, come per cercare di sorreggere tutte le mie angosce e tutta la mia paura.

Pesavano... eccome se pesavano. Il cuore batteva a mille, iniziai ad avere il fiatone; i nervi stavano crollando uno dopo l'altro e, con loro, la mia sanità mentale. Scoppiai a piangere istericamente: tutto intorno a me sembrava ruotare vorticosamente causandomi le vertigini, tanto che allungai le mani verso il vuoto per trovare il muro, per poi accasciarmi a terra stringendomi nelle braccia, come per proteggermi da un nemico invisibile.

Faragonda non disse nulla e si limitò a guardare, stropicciando nervosamente la manica della sua giacca. In quel momento ero pura frustrazione, doveva lasciarmi cucinare nel mio brodo e prendere una decisione. Già, una scelta... ma avevo davvero una scelta, alla fine? Potevo davvero mollare tutto come se niente fosse e andarmene via?

L'idea mi fece a dir poco schifo e ribrezzo. Ero già un'assassina, sarei diventata anche codarda, traditrice, inetta. Rinunciai alla possibilità di scegliere nel momento in cui vidi la vita spirare via dagli occhi di mia sorella, non c'erano via di uscita... o meglio, non le volevo trovare.

Se inizi a camminare per vie oscure difficilmente torni indietro, puoi solo andare avanti. Realizzato ciò in un turbinio di pensieri densi come pece, ingoiai uno dei rospi più grandi della mia esistenza e sbattei i pugni a terra, voltando gli occhi cremisi al soffitto e bestemmiando contro gli dei. Digrignai i denti e feci quel che dovevo fare. Dovevo.

«Sa cosa? D'accordo! Sono già un mostro, preside. Le mie mani sono ancora lorde del sangue del mio sangue, non mi tirerò indietro. Se questo è il mio destino, se questa è la via che ho scelto, allora diventerò il peggior abominio che questo Universo abbia mai visto».

Il volto di Faragonda si contrasse in una sfumatura di doloroso rimpianto: vedeva la follia nei miei occhi, vedeva l'obbligo e la vergogna. Dopotutto, non era già quella una forma di corruzione? La mia purezza magica era davvero così importante?

Mentre la preside contattava la Griffin, i miei pensieri galoppavano senza senso, violenti e terribili. Ero una fata e, in quanto fata, ero identificabile, ero qualcuno di definito. Avevo deciso di diventare qualcosa che era fuori da ogni schema, non avrei trovato mai in nessun libro che cosa sarei diventata.

Indugiai in quel pensiero delirante per qualche minuto, poi ebbi un'epifania che mi scaldò il cuore, come una panacea: era poi così terribile essere un nessuno? Essere un qualcosa. Una senza nome. Non era forse quello che desideravo di più?

Era meglio non avere nome piuttosto che essere chiamata 'assassina'. 'Nessuno' era una nomea migliore di mostro e, per conquistarmi quel titolo, dovevo uccidere nuovamente, come quando due negazioni diventano un'affermazione.

Mi venne una risatina esasperata, quasi eccitata da questa mia nuova prospettiva di vita: morire e mettere la parola fine a quell'inferno, oppure far tornare in vita Daphne e perdere per sempre la mia identità, diventando polvere.

Non potevo chiedere di meglio. Al nulla non si può dare aggettivo, il mio peccato sarebbe sparito per sempre insieme a tutto il resto.

Ero ancora immersa nel mio delirio quando Faragonda si alzò faticosamente dalla sedia, come se il suo corpo si rifiutasse di compiere i suoi ordini; indossò il suo soprabito scuro e, nel silenzio più totale, ci avviammo verso Torrenuvola. Non fiatò mai durante il tragitto, aveva paura perfino di guardarmi, di consigliarmi, di fare qualunque cosa.

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