𝘾𝙖𝙥𝙞𝙩𝙤𝙡𝙤 𝙦𝙪𝙖𝙩𝙩𝙧𝙤

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HIM.

Lei veniva da me ogni giorno. Nel pomeriggio, dopo i suoi impegni quotidiani. Mi facevo trovare pronto con la tazza di ceramica chiara poggiata sul bancone, calda al tatto, e un succoso argomento di cui parlare. La maggior parte delle volte finivamo per discutere su cose completamente senza senso, che non avevano nulla a che fare con ciò che avevo pianificato, ma era quello che rendeva i nostri pomeriggi piacevoli: il fatto che io, Kim Namjoon, riuscissi a conversare con una persona che non fosse il mio migliore amico o la professoressa di letteratura... bé, era davvero strano.
    Eppure, Eleonora mi rendeva vulnerabile sotto il suo sguardo tenero. Notavo sempre il suo sorriso, lo avrei potuto riconoscere persino tra mille volti. Il suo era unico.
    Anche Jin si stupí quando, in una normale serata in appartamento, gli confessai della ragazza. Non ero il tipo da aprirsi e fare conoscenza con chiunque, soprattutto per quanto riguardava le ragazze, e ciò lui lo sapeva bene. Si mise a farmi mille domande e si complimentò quando gli dissi che la fatidica ragazza non fosse altro che l'amica della sua amata, Anita. Non ci aveva creduto, ma alla fine si rimangiò tutto e mi disse solo un: «Mi sorprendi sempre di piú, amico», rivolgendomi un grande sorriso.

    Ed ecco che, a distanza di tre giorni, mi trovavo ad avanzare lungo un viale secondario per raggiungere casa. Le mani in tasca, il mento nascosto dalla sciarpa di lana e un ridicolo sorrisetto stampato in faccia. Anche quel giorno avevo trascorso ore ed ore in compagnia di Eleonora, in un luogo che per me poteva eguagliare il significato di “casa”. Mi aveva raccontato cosí tante cose che cercavo di ripetermele in testa una ad una, cercando di rimembrare la sua voce. Mi sentivo euforico.
    Attraversai la strada incrociando una giovane madre che trascinava per mano il suo figlioletto, al quale sorrisi ampiamente. Non mi importava se potessi passare per maniaco, ero fin troppo impegnato ad essere felice ed elettrizato. Dopo aver imboccato un vicolo illuminato da si e no un paio di lampioni, giunsi di fronte al portone della nostra piccola dimora. Feci per aprire il cancello quando una forza piú forte sembrò strapparmi la maniglia dalla mano, facendomi sobbalzare. Davanti a me, tenendo saldo il proprio cellulare e con un espressione indecifrabile in volto, vi era Seokjin.
«Stai bene?»
«Non hai idea di cosa sia appena successo», ignorò la mia domanda, usando un tono sorpreso. «Ma proprio zero.»
«Cosa... cosa è successo?»
«Ha detto sí! Ha accettato!»
Cominciò a gridare in mezzo al giardino, gesticolando in maniera incontrollata. Gli presi velocemente il polso cercando di calmarlo, cosa che sembrò funzionare.
«Non sto capendo, Jin.»
«Ho chiamato Anita.»
Sgranai gli occhi. Pensavo fosse accaduto chissà che tragedia o, non so, avesse ottenuto un premio.
«Da quando hai il suo numero?»
«Da sempre, idiota!» urlò. «Ma non è questo il punto.»
«E quale sarebbe?»
«Le ho chiesto se una di queste sere potessimo bere qualcosa insieme, e lei ha accettato», sul suo viso apparve un ampio sorriso e notai un luccichio nei suoi occhi. «Ho un appuntamento!»
«Oh... wow!» esclamai, tentando di apparire il piú sorpreso possibile. «Che notiziona!»
«Lo so! Avrò la ragazza e non ho neanche trent'anni!»
Stavo per ribattere che fosse troppo presto per considerarla già una fidanzata, ma rovinare quel suo momento di gioia sembrava troppo crudele. Si voltò verso la porta d'ingresso lasciata spalancata ed entrò in salotto saltellando, mentre canticchiava il ritornello di un famoso cartone animato. Ridacchiai, era davvero un bambino. Notai la televisione accesa su un canale dove trasmettevano principalmente drama o telenovele straniere, sapendo che Jin li trovava comici, e la tavola ancora apparecchiata.
Mi avvicinai al mio amico per ordinargli di mettere a posto ma, ancora una volta, la visione di un Seokjin che sculettava senza ritegno in piedi sul divano mi fece distrarre.
«Se fai cosí solo per un appuntamento, figuriamoci quando ti sposerai.»
Jin si fermò ad osservarmi, per poi allungare una mano verso il mio viso. «Anita sarà cosí bella col suo abito da sposa... e-e tu sarai il mio testimone di nozze, per certo, e quell'altro tuo amichetto del mini market farà il prete.»
«Chi? Jungkook?»
«È perfetto come prete, o no?»
Tentai di trattenere una risata. Non volevo rovinare i suoi fantastici film mentali da ragazzino nel pieno della sua pubertà, ma il solo immaginarmi il piccolo Kook con indosso la tunica da prete...
«Jin, devi smetterla di guardare drama, ti stanno dando alla testa», dissi, facendolo scendere dal divano. «Quando sarebbe l'appuntamento?»
«Penso domani sera», rispose. «E non ti azzardare a toccare la mia cucina. Tiri fuori i soldi e ordini asporto per cena.»
«Ma-»
«Non ti permetterò di bruciarmi casa.»
Annuii. Era inutile discutere con Jin su un argomento del genere. E poi, la cucina non faceva per me.

°•°•°•°

«Mia madre mi leggeva ogni sera questo libro, diceva che era un ottimo modo per ampliare la mia fantasia», raccontava lei, accarezzando con i polpastrelli la copertina rigida di 'Harry Potter e la pietra filosofale'.
    Anche quella volta era riuscita a trovare del tempo per la biblioteca e, chissà per quale motivo, aveva deciso di pescare uno dei libri dallo scaffale dei racconti per ragazzi. Come tutti, anche io feci parte degli amanti di una delle saghe fantasy piú belle ed importanti della storia e, avendo letto tutti i libri, finimmo per discuterne come due vecchi appassionati.
«Aveva ragione», le dissi, guardando il blocco di pagine. «La mia passione per la lettura è nata proprio da questo libro.»
Lei sorrise, per poi sfogliare con delicatezza le pagine ingiallite. «Se solo ne capissi qualcosa...»
Non capii fino a quando non diedi un occhiata al libro aperto sulle sue gambe: era tutto scritto in coreano, incomprensibile per una ragazza straniera appena trasferita. In effetti, mi chiesi come fece ad ambientarsi facilmente senza la conoscenza della nostra lingua.
«Non è poi cosí difficile», feci, indicandogli una parola a caso sulla pagina. «È come l'alfabeto che usate normalmente voi, solo scritto in maniera differente.»
Fece una faccia interrogativa. «In che senso?»
«I suoni sono praticamente identici, se non per qualche eccezione. Vedi questa parola?»
Gli indicai i vari simboli che componevano la parola 'giornata', una delle piú semplici che riuscii a scovare tra tutte. Lei annuí, attendendo che proseguissi.
«È formata da due lettere, si pronuncia “il”. Questo simbolo qua sopra è la lettera I, mentre quello sotto è la L», spiegai. «Suono uguale ma scrittura differente.»
«E che vuol dire?»
«Giornata», risposi.
Sorrise soddisfatta, riponendo nuovamente il suo sguardo sul libro.
«E questa?»
Indicò la parola "mago”.
«È composta tra tre sillabe: la prima è “ma”...» le mostrai il primo simbolo. «La seconda è “sul”...» proseguii con il secondo. «E la terza è “sa”.»
«Quindi... “masulsa”?»
«Esatto!»
«E che vuol dire?»
«Mago.»
Sorrise. Come una bimba dopo aver preso un ottimo voto per il suo disegno. Ed io ne rimasi incantato.
    Proseguimmo cosí per un tempo indefinito, non mi resi conto della luce dei lampioni che illuminava le strade avvolte nell'oscurità. Posammo il libro sullo scaffale alle dieci di sera esatte, dopo che Eleonora ebbe controllato l'ora sul suo cellulare.
«Forse... è meglio che chiami un taxi», affermò, alzandosi dalla poltrona per dirigersi davanti al bancone, nell'altra stanza. La seguii riluttante, non volevo che se ne andasse. Giunse di fronte alla porta e, esitando, afferrò la maniglia dorata.
«Ci vediamo?» fece.
Rimasi in silenzio. Il modo in cui mi guardava con i suoi grandi occhi mi rendeva ancora piú difficile lasciarla andare. «S-sí, quando vuoi.»
Mi rivolse un lieve sorriso, imbarcando le labbra, poí si voltò ed uscí dalla stanza. I cardini della porta cigolarono, la parete virbò ed il mio respiro si mozzò. No, non l'avrei lasciata andare, non ora.
Mi fiondai all'esterno, giusto in tempo per notare la portiera dell'auto grigia chiudersi e i fari accendersi per illuminare la strada. Corsi fino a raggiungere il ciglio di essa, poggiando le mani non troppo delicatamente sul finestrino. Questo, in poco tempo, si abbassò, rivelando l'espressione sorpresa di Eleonora.
«Nam, cosa-»
«Non andare», dissi, senza esitazione. «Vieni con me.»
Lei mi stava osservando perplessa, i suoi occhi passarono dal mio viso al sedile anteriore, dove sedeva l'autista. «Mi scusi, ma non ho piú bisogno del passaggio.»
Non sentii nulla, troppo impegnato a seguire con lo sguardo la ragazza che scendeva dall'auto. Si mise di fronte a me, mentre il taxi si allontanava ed io, incredulo, rimasi in silenzio a guardarla. Mi aveva ascoltato, era rimasta.

 Mi aveva ascoltato, era rimasta

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