Non so di preciso quando prese per la prima volta in mano una bottiglia, né perché, né come facesse a fare finta che tutto andava bene come sempre. Fatto sta che il tempo passava e io continuavo a non capire le preoccupazioni di mia madre, le loro liti, le varie situazioni imbarazzanti che si venivano a creare. Fino a che un giorno mio padre non mi accompagnò a casa di una mia amica, mi salutò come sempre e tornò a casa. Ricordo che la sera mi venne a prendere mia madre, tentando di non farmi sentire la pressione dei suoi pensieri, con scarsi risultati. Mio padre era svenuto, sul letto, aveva bevuto troppo, ed era stata mia sorella a vederlo per prima. Lei all'epoca aveva 16 o 17 anni e da quel momento non riuscì a togliere mai quella visione dalla testa. Chiamarono l'ambulanza ma lui, che intanto aveva ripreso conoscenza, si rifiutò di andare in ospedale e continuava a negare l'evidenza. Non ricordava nemmeno dove mi avesse accompagnato, e da lì partirono le mille chiamate a tutte le mie amiche per cercare di trovarmi.
Riuscirono a convincerlo, dopo le analisi risultava un tasso alcolemico nel sangue decisamente troppo alto e i parenti di mio padre furono capaci di dire solamente che era colpa di mia madre, che lo aveva avvelenato. Da quel momento i miei si separarono, prima in casa e poi lui si trovò una villetta in affitto. Io mi sforzavo con tutta me stessa, ma non ero in grado di comprendere appieno la situazione, anche perché la verità veniva filtrata da tutti dato che avevo solo 9 anni. Ero quasi felice di quella situazione, avevo due case e mio padre era sempre più disponibile nei miei confronti, assecondava ogni mia richiesta ed esaudiva ogni mio desiderio. Andava tutto bene ai miei stupidi occhi.
Poi arrivò quel fatidico 23 dicembre, quando ad andarsene fu il mio caro, carissimo nonno materno. Credo che lì io abbia perso davvero un pezzo di cuore, e non riesco a pensare a lui senza che il mio viso si righi in un attimo. Anche se era molto esile, era il pilastro portante di tutta la famiglia e una presenza fissa e costante nella mia vita. Perdere lui è stato il mio primo enorme trauma. Con lui passavo pomeriggi interi a giocare (quasi sempre a carte, tentando anche di barare il più delle volte, anche se lui mi concedeva lo stesso il grande onore di vincere), a guardare noiosi telegiornali, a farmi viziare come solo un nonno sa fare. Mio padre lo chiamava sempre "chef" e lui ricambiava con "'ngignì", anche se mio padre era diplomato al geometra e non era un ingegnere. Non ho mai capito il senso di questi nomignoli, ma forse è meglio così, mi piace pensare a questa piccola complicità che avevano come a un mistero. Certe volte cerco di ricordare la loro voce, e anche se mio padre mi ha lasciata da pochi mesi ho qualche difficoltà. Questo mi distrugge, perché è come se lo stessi già dimenticando, come se in 20 anni non fossi stata capace di fissarlo nella mia mente, nei miei ricordi, nella mia memoria. E' un pensiero che mi logora continuamente e non passa giorno che io non mi senta in colpa per ogni mio comportamento.
Penso spesso che se fossi stata più presente per mio padre, se non mi fossi limitata a qualche cena e non lo avessi abbandonato sempre di più, magari sarei riuscita a farlo smettere di bere, magari lo avrei riportato alla normalità, magari anche lui sarebbe stato più fiero di me e mi avrebbe guardato con gli stessi occhi di quando mi vedeva andare a cavallo. Invece no, quando trovavo le bottigliette d'acqua dove metteva l'alcol, io non facevo assolutamente nulla. Le aprivo, odoravo e chiudevo di nuovo, facendo finta che tutto fosse normale, forse per paura di una sua reazione o forse (e più probabilmente) perché non ho mai avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà.
YOU ARE READING
L'altra faccia di Clizia
General FictionNella mitologia, Clizia era una ninfa che amava così tanto Eros da volgere lo sguardo sempre verso di lui, fino a trasformarsi in girasole dopo che la rifiutò. Mi sono sempre identificata in lei, non tanto per l'amore non ricambiato in se, ma per il...