Parte due;

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“Papà, non voglio più fare pianoforte!” disse Anastasija, cercando di sfoderare le sue faccine dolci in modo tale da convincerlo. Ma lo zar in quel momento aveva altro per la testa, e purtroppo per la piccola granduchessa, non poteva perdere tempo in quelle sciocchezze. “Anya, ne abbiamo già parlato. Jisung resta e tu continui con le lezioni. Un Romanov non rinuncia mai ai suoi impegni, né abbandona qualcosa.” rispose il vecchio, spingendo sua figlia lontano dalla sua scrivania.
“Adesso va, che ho cose molto importanti da fare.”
La piccola fu costretta ad andar via e inutile dire che piangere non servì a nulla. Mentre usciva dalla stanza del padre, incrociò lo sguardo austero di Aleksandra. Subito Anya placò le sue lacrime, non poteva farsi vedere debole da lei. Tuttavia, la zarina non ci fece neppure caso mentre entrava nella stanza del marito.
“Nikolaij, hai nuove notizie?” chiese leggermente in ansia, chiudendosi la porta alle spalle, lasciando la piccola granduchessa fuori a crogiolarsi nel dolore perché stava per iniziare una nuova lezione di pianoforte.
“Francia e Inghilterra continuano con le guerre sottomarine.” pronunciò serio il diretto interessato, appoggiando il mento nelle mani giunte. “La situazione è troppo grave per lasciar correre e lasciar fare tutto al resto dell’Europa.”
“Sono preoccupata per i nostri figli.” aggiunse la donna dagli occhi azzurri, mordendosi un labbro in apprensione. Probabilmente nessuno al di fuori del marito l’aveva mai vista in quelle condizioni. Tutti sapevano che era una donna austera e distaccata, molti pensavano persino che non avesse un cuore.
Ma quando era con suo marito, Aleksandra era sé stessa e si lasciava andare nelle sue emozioni.
“Ci ho già pensato, tranquilla.” rispose lo zar, aggiungendo quell’aggettivo per consolare sé stesso più che sua moglie. “Avranno delle guardie del corpo personali, scelte da me tra i soldati migliori. Saranno al sicuro.”
“Per ora.” aggiunse la zarina, con quegli occhi quasi in lacrime che brillavano sotto la luce della candela.

“Certo che Anastasija era una vera rompicog-”
“Felix.” rise Chan, interrompendo una qualsiasi forma di insulto nei confronti della granduchessa russa.
“No sul serio, era un sacco complessata per essere una ragazzina!” continuò il biondino, mangiucchiando la quinta caramella di fila e gettando la carta per terra. Il più grande lo guardò male, un po’ per ciò che aveva detto, un po’ per l’involucro della caramella scartata finito sul pavimento. Lo raccolse contrariato, mentre il più piccolo non si faceva problemi a prendere anche la sesta delizia.
“Aveva un sacco di pressione su di sé, anche se era solamente una quattordicenne era pur sempre una Romanov.”
“Sarà.” commentò Felix, mentre nella sua mente tornava a delinearsi la bellezza del Palazzo d’Inverno e dei suoi abitanti.

    Ottobre 1916, San Pietroburgo.

Anastasija odiava le guerre, con tutto il cuore. Non voleva che il suo paese perdesse ancora anime come già era successo quando era piccola. Aveva una nobiltà d‘animo che pochi possedevano, anche se cercava in tutti i modi di celarlo.
Quando suo padre le disse che gli avrebbe affiancato una guardia del corpo, la piccola Anya simulò una risata, alquanto isterica tuttavia, e gli rispose: “Io so difendermi da sola!”, non credendo per nulla alle sue stesse parole.
Alle dodici spaccate del giorno dopo, un ragazzo con un colbacco in testa e avvolto in un cappotto pesante, uno di quelli tipici con il colletto di pelliccia folta, fece il suo ingresso al Palazzo d’Inverno, guardandosi intorno e  poggiando per terra la valigia contenente tutto ciò che aveva.
Una serva - la solita serva che sapeva sempre tutto su tutti- lo salutò allegra, andandogli incontro e prendendo il suo bagaglio, prima di accompagnarlo nella stanza della granduchessa.
“Granduchessa, questo è la sua nuova guardia del corpo, Minho.”
Anastasija era intenta a guardare il pianoforte come un mostro, mentre Jisung le spiegava per l’ennesima volta le scale di base. La voce della serva interruppe la loro lezione, facendoli voltare verso l’ospite appena presentato. 

“E fu lì che accadde?” chiese Felix.
“E fu lì che accadde.” gli fece eco Chan.

Gli occhi azzurri di Jisung si incastrarono perfettamente in quelli verdi del giovane arrivato, dai capelli lisci e le labbra carnose che di così belle non ne aveva mai viste. Il pianista distolse lo sguardo arrossendo visibilmente davanti la bellezza di quel soldato.
La granduchessa sorrise e andò incontro a Minho, abbracciandolo di slancio come se fosse un suo vecchio amico. Era rimasta chiaramente affascinata da quel ragazzo, esattamente come Jisung.
“Tu devi essere Anya.” disse Minho, ricambiando l’abbraccio e prendendosi la libertà di chiamarla con il nomignolo dei suoi parenti. Jisung avrebbe dovuto infastidirsi, come si permetteva a chiamare la granduchessa di tutte le Russie in quel modo? Ma non ci riuscì, perché la voce strascicata del soldato continuava a risuonargli nelle orecchie facendolo sciogliere, impedendogli di arrabbiarsi.
“E tu devi essere il mio angelo custode!” esclamò la bambina, battendo le mani in segno di felicità. “Sono così felice che tu sia qui!” aggiunse, prima di volare via dalla stanza con un “Vado a prepararti la camera!” urlato e rimasto a mezz’aria.
Jisung non si era mosso di un centimetro.Stava fissando i tasti del suo pianoforte, contandoli uno per uno, pur di distrarsi da quegli occhi verdi come i campi dell’Inghilterra che non aveva mai visitato, ma che poteva solo immaginare attraverso i libri. Sentì gli stivali chiodati di Minho scricchiolare, mentre si avvicinava sempre più allo strumento, lentamente, torturando la salute mentale del povero pianista.
Lo sentiva dietro di sé, alle sue spalle, ma non aveva alcun coraggio di voltarsi. Con la coda dell’occhio lo vide allungare un braccio, proprio verso i tasti del pianoforte, alla sua sinistra. Premette qualche tasto bianco, poi qualcuno nero, a caso. E poi Jisung, ancora fermo e immobile come una fotografia, sentì per la prima volta la sua risata. Bella, cristallina, mozzafiato. No, Jisung non respirava affatto mentre quel suono celestiale lo invadeva senza permesso, entrava nei polmoni al posto dell’aria, lo uccideva quasi.
“Che grande invenzione il pianoforte!” esclamò Minho, allontanandosi dallo strumento per poi sedersi in una poltroncina accanto. “Peccato che non ne capisca nulla di musica.” aggiunse, con una smorfia di disappunto, grattandosi la testa.
Jisung si concesse allora di guardarlo di nuovo. Ammirò le sue dita affusolate incastrate tra i capelli. Ammirò le ciglia lunghe, che incorniciavano perfettamente quegli smeraldi che aveva al posto degli occhi. Ma no, non si soffermò ad ammirare le sue labbra, perché era già troppo rosso in viso e non voleva peggiorare la situazione. Minho rimase in silenzio, aspettando un qualche commento che non arrivò. Aveva un sorrisetto sfacciato in volto e la fronte corrugata in segno di curiosità.
“Ti hanno mangiato la lingua?” chiese, fissando il pianista insistentemente. Le guance di Jisung erano proprio in fiamme, ma cercò di non dare a vedere troppo il suo imbarazzo scuotendo la testa e rispondendo con “Sono di poche parole.”
Scusa alquanto banale che fece assottigliare gli occhi di Minho e che lo fece scoppiare a ridere.
“Ah beh, io tutto il contrario.” affermò compiaciuto. “Piacere, io sono Minho comunque.” aggiunse, rialzandosi in piedi.
“Lo so.” mormorò Jisung, tornando a fissare i tasti del pianoforte. Ma nuovamente, il soldato si avvicinò con passo felino al suo sgabello, facendo tendere il ragazzo dagli occhi azzurri come una corde di violino. Le sue dita toccarono i tasti del piano, ancora, dal primo all’ultimo, costringendo anche Jisung a spostarsi di lato per permettergli di completare la scala.
“Lo so che lo sai.” mormorò Minho, con un sorriso beffardo in faccia. Jisung sussultò, sentendo la voce del ragazzo così calda e vicina, seducendo la sua mente. “Ma te l’ho detto perché speravo di sapere il tuo, di nome.” sussurrò ancora più piano, avvicinandosi all’orecchio di Jisung.
Il pianista tremò appena, la vicinanza stava mandando in panne qualsiasi organo vitale che aveva. Forse sarebbe morto, ma per una volta dovette ringraziare Anastasija che irruppe nella stanza urlando di felicità.
“Minho! Andiamo ti porto nella tua camera!” Prese per un braccio la giovane guardia portandola via e non curandosi minimamente di ciò che stava succedendo davanti a quel pianoforte.
Ma Jisung se ne curò invece tutta la notte, perché il volto angelico di Minho gli impedì di fare qualsiasi altra cosa, compresa dormire

Sinfobie | MinsungDove le storie prendono vita. Scoprilo ora