Damiano Orler. parte I.

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La casa era più sola che mai.
Non era imperfetta, non aveva grossi problemi ma,
per Damiano Orler non era quello che contava:
tranne lui era vuota e sconsolata, e odorava di perdite recenti.
Passò dalla cucina al soggiorno
dopo avere terminato il suo misero pasto, si mise sul divano
con un braccio appoggiato nell'apposito incavo,
poi portò una mano, chiusa a pugno, alla tempia, e sentì il sonno
affiorargli rapidamente dal basso verso l'alto, sino a prendergli
il cervello, intossicandolo. 


Fece una pennichella di mezzora, senza sogni, asciutta
come un bacino svuotato.
Poi tornò ad alzarsi e accese lo stereo a tutto volume, dopo avere
inserito la chiavetta usb, con un mix di intelligent dance music.
Estrasse dall'armadietto dei liquori una bottiglia di cointreau,
e se ne concesse un abbondate cicchetto.
Tra mezzora doveva essere al lavoro e cercava di sfruttare ogni
minuto per stordirsi con il sound, e quel po' di liquore.
La casa non emanava neppure un respiro da quando,
in rapida successione, erano morti i suoi due genitori lasciandolo
a cavarsela, a 33 anni, da solo nelle questioni,
perfide e infide, della vita. 


Certo, aveva una sorella, sposata con due bambini, che non lo
abbandonava, e lo aiutava nelle faccende burocratiche
e amministrative a cui era poco preparato.
Ma il punto non era quello: la grande questione era la solitudine.
Non aveva legato, nel suo lavoro di operatore ecologico,
con i colleghi, non aveva fatto comunella con nessuno
e stava perdendo, uno dopo l'altro, i vecchi amici.
Certo, dedicava tutte le notti alla stesura dei suoi
infiniti romanzi (una passione colpevole che gli si era
affinata negli anni), ma la compagnia di un computer,
pur distraendolo per qualche ora dalle incombenze del cervello,
non era propriamente come la battuta di un amico
o la carezza di una fidanzata. Eppure non si trovava nulla
di strano: era un ottimo giovane, dal bel viso e dal portamento
saggio, aveva un'attività (per quanto sottostimata potesse essere)
e addirittura un'automobile.
Ma non serviva a nulla quando l'irrequietezza muoveva le sue
ali pesanti per le sale vuote dell'abitazione. 


Avrebbe potuto quasi afferrarla (flap-flap) mentre girava, per
posarsi sul suo cranio a piantare l'odiato vessillo della tristezza e
dell'abbandono, mentre una parola particolarmente ostica
lo arrestava nella stesura di un racconto, o un singulto gli saliva
alla bocca, insieme a una gran voglia di pianto.
Quando, in maniera subdola, il ricordo dei poveri genitori
rinveniva, a passo di corsa, contro la saracinesca che aveva
abbassato sui sentimenti:
poteva sentirla schiantarsi rumorosamente contro l'acciaio,
e far tremare le fondamenta della sua precaria stabilità,
poteva vederla fargli le boccacce, oscena eppure impeccabile,
da dietro le grate delle sue fragili difese. 

La notte dormiva con dei sonniferi, e con lo stereo acceso, 
per non crollare in una crisi di panico, o in quell'improvviso
horror vacui che minacciava di farlo saltare dalla sua finestra
al sesto piano.

Il fuoco (dentro)Where stories live. Discover now