Luglio 1998. Dima aveva undici anni. Era un bel bambino biondo con gli occhi chiari, come si addiceva alla sua razza. Il suo nome era Dimitri, ma si faceva chiamare Dima, pronunciato all’ucraina, con l’iniziale che suona come una zeta sonora. Fu assegnato a me e a mia moglie durante la “festa dell’accoglienza” dei bambini di Chernobyl. Un’associazione della mia città organizzava, all’epoca, i soggiorni terapeutici per i bambini colpiti dalle radiazioni del disastro della centrale nucleare nel 1986. Dima veniva da un paesino a metà strada tra Kiev e Chernobyl, a cinquanta chilometri in linea d’aria da entrambe le città. Avrebbe passato con noi tre settimane.
Eravamo una ventina di famiglie ad avere aderito all’iniziativa, ma mia moglie ed io eravamo i più giovani e gli unici senza figli. Forse perché Dima mi aveva visto giovane, forse perché avevo imparato qualche frase in russo e gli avevo chiesto subito “Kak tibià zavùt?” (Come ti chiami?), sta di fatto che, appena l’accompagnatrice ci presentò, mi saltò al collo e mi abbracciò forte. Rimasi spiazzato: gli altri bambini erano molto più guardinghi, poco espansivi, invece Dima sembrava il ritratto della felicità.
Non mi lasciò più per tutta la serata. Continuava a parlare. Non capivo cosa dicesse, ma le sue mani, i suoi occhi e tutto il suo corpo m’indicavano che ogni cosa per lui, lì intorno, era bellissima. Eravamo nel cortile del collegio delle suore che avrebbero ospitato i bambini per la notte - ogni notte, da quella in poi - per non dividerli. Non mi ero mai soffermato ad ammirare la siepe di buganvillea che nascondeva il muro alla fine del porticato, fu come se la vedessi in quel momento per la prima volta, attraverso gli occhi di Dima.
La mattina dopo lo andai a prendere in collegio. Mi buttò di nuovo le braccia al collo e mi seguì ansioso di scoprire il mondo fuori da quelle antiche mura. Un urlo di gioia gli sfuggì involontario quando scoprì che avevo un’auto. Alla luce del sole i suoi occhi sembravano ancora più chiari. Mi colpì, sull’incarnato bianchissimo del suo viso, un unico vistoso neo sotto l’occhio sinistro. Non lo avevo notato la sera prima. Dima comunque era proprio un bel bambino.
Da quel giorno iniziai a viziarlo. Gli comprai di tutto: lo rivestii da capo a piedi, gli regalai giocattoli, gli feci mangiare ogni tipo di dolciume e di prelibatezza della cucina italiana. Cominciai anche a insegnargli l’italiano. Da uno di quei manualetti per turisti italiani in Russia, gli leggevo le frasi e le parole in russo e gliele ripetevo in italiano. Dima imparava a una velocità impressionante.
Mi resi ben presto conto che stavo sbagliando tutto. Stavo trasformando il suo soggiorno terapeutico in Italia in una vacanza nel paese di Bengodi. Il carattere forte e determinato di Dima cominciò a emergere alla fine della seconda settimana. Ormai non mi chiedeva più le cose, le pretendeva. Era sempre affettuosissimo, ma aveva capito che mi aveva in pugno.
Una mattina lo portai in piscina. Gli piacque moltissimo, anche se non sapeva nuotare. Non riuscivo a tirarlo fuori dall’acqua. Non voleva andar via, solo la fame riuscì a convincerlo. Uscimmo che erano le due del pomeriggio. Dima, stringendomi la mano, sollevò lo sguardo e mi disse: -Domani ancora-.
Quando l’indomani capì che non lo avrei riportato in piscina, si chiuse in un mutismo apatico. Passò l’intera giornata a giocare da solo con i giocattoli che gli avevo comprato. Mia moglie, pensando che soffrisse di nostalgia di casa, gli chiese: -Ti manca la tua famiglia?-
Dima, senza neanche alzare lo sguardo, rispose: -Qui manca solo la mia mucca-.
La mattina dopo, quando arrivai al collegio, trovai le suore in agitazione. I bambini si erano riuniti nel cortile interno e si rifiutavano di uscire.
-Perché?- chiesi allibito.
-Dicono che voi famiglie dovete mettervi d’accordo e portarli tutti in piscina- mi rispose la madre superiora.
-È stato Dima- la mia non era una domanda, ma la suora mi rispose ugualmente.
-Credo proprio di sì. Quel bambino è il riferimento del gruppo, da quello che vedo-.
Cominciò una vera e propria contrattazione tra noi genitori e i bambini.
-Non c’è niente da fare- dissi alla fine, rivolto agli altri adulti intorno a me -Questi russi sono nati per fare la rivoluzione. Se non li assecondiamo, restiamo qui fino a stasera-.
Avevano vinto loro. Aveva vinto Dima.
L’ultimo giorno fu veramente triste. La sera ci ritrovammo nel collegio delle suore per la “festa d’addio”. Festa d’addio suonava come un ossimoro, in quel caso. Nessuno aveva voglia di fare festa. Noi tutti ci eravamo procurati un po’ di dollari da dare ai bambini. Li avevamo nascosti negli indumenti che avrebbero indossato per il viaggio, nella speranza che ai controlli aeroportuali non li scoprissero e li sequestrassero. Volevamo, almeno per un po’, accompagnare quei bambini nel loro cammino verso il futuro. Sapevamo che non li avremmo più rivisti. Gli elenchi di quelli che potevano partecipare ai soggiorni terapeutici erano stilati dal loro Ministero della Salute: nessuno poteva esservi inserito più di una volta.
Lasciammo anche il nostro indirizzo, nella speranza di mantenere i contatti. A me arrivò una sola lettera, dopo un paio di mesi, scritta in russo. Mia moglie se la fece tradurre dalla badante della madre di una sua amica. La madre di Dima ringraziava: con i dollari cuciti nel rinforzo delle mutandine del figlio aveva comprato un’altra mucca e non ricordo più quanti animali da cortile. Poi più nulla. Nessuna delle famiglie affidatarie, in capo a pochi mesi, ebbe più notizie dei bambini russi. Per noi, all’epoca, tutti i “bambini di Chernobyl” erano semplicemente i bambini russi.
Febbraio 2014. Qualche sera fa, a tarda ora, ero davanti alla tv e facevo zapping, come al solito, prima di decidermi ad andare a letto. Uno dei tanti telegiornali stava parlando dei ragazzi di piazza Maidan a Kiev. Dopo pochi secondi stavo per passare su un'altra rete: il servizio era simile a tanti altri dei giorni precedenti e i problemi dell’Ucraina sembravano sempre più lontani da casa nostra.
Poi un ragazzo, vestito con la tuta mimetica e l’elmetto, al microfono della giornalista ha urlato un “Ciao, Italia” che ha attirato la mia attenzione. L’operatore ha stretto l’inquadratura sul volto di quel ragazzo di piazza Maidan: aveva il bavero del giaccone alzato e l’elmetto che gli copriva la fronte. Si vedevano solo gli occhi chiarissimi. E, sotto l’occhio sinistro, un unico neo. Il vistoso neo di Dima.