Capitolo 8 - Ti proteggo io

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Maya


Mi sento al sicuro.

Protetta, lontana da ogni male possibile.

Stringo la sua mano, intreccio le dita e ascolto il suono del suo respiro accarezzarmi dolcemente il collo nudo e fragile, ancora marchiato da succhiotti rossastri formati da bocche di volti senza nome.

Il tocco di Evan mi fa stare bene. Le sue mani, più grandi delle mie, sono ruvide. Mi danno un senso di dolcezza.

Per una volta il contatto fisico con un uomo non mi provoca repulsione. Fastidio, o qualsiasi altro aggettivo che mi porterebbe a bere per tollerare il tutto. Alzo lo sguardo verso le labbra socchiuse di Evan, i suoi sospiri leggeri continuano a solleticarmi.

Quanto è bello, dannazione...

E neanche se ne rende conto. Quando sono così vicino a lui non riesco a frenare i pensieri, dettati dall'impulso di quella parte infantile di me che dimostra effettivamente diciassette anni. Adesso, non riesco a fare a meno di sorridere.

Perché mi batte forte il cuore? Non ho intenzione di rispondere a questa domanda, perché ho paura di ciò che potrei ammettere, paura di ciò che potrei scovare dentro di me. E arrivata al punto di non ritorno dovrei fare conto con i miei sentimenti.

Non posso rischiare così tanto. Preferisco rimanere nell'ombra, osservare da lontano un piccolo mondo distante dall'infelicità a cui ormai sono abituata.

Giuro, questo mi basta.

«Evan?»

Mi stringe più forte. Capisce che in questo momento ho bisogno di lui.

Preme le labbra sulla nuca, sospiro. Non mi muovo. Mi faccio avvolgere, mi lascio cullare come una bambina.

Mi lascio cullare come non succedeva da tempo.

Ho ancora un forte mal di testa e ho passato una settimana orribile. Ma se è vero che alla fine del tunnel c'è sempre la luce, allora io ho già trovato quel piccolo spiraglio di bagliore che potrebbe salvarmi da un buio pesto insopportabile.

E in quella luce ho intravisto una mano a cui mi sono aggrappata con forza.



Dopo diversi tentativi riesco finalmente a trovare la volontà di svegliarmi.

La vista rimane ancora sfocata per qualche secondo, strizzo un paio di volte le palpebre leccandomi le labbra.

La prima cosa che noto è la luce, quella che spicca fra le sottili fessure della persiana. I raggi del sole riscaldano l'ambiente freddo e statico della stanza di Evan, ed io sono ancora stordita e confusa. Non mi ricordo quasi niente, se non Evan che mi porta qui, a casa sua.

Mi guardo attorno, ancora spaesata. Le pareti sono di un colore grigio spento, gli unici mobili presenti sono un ampio armadio bianco posto di lato e una scrivania di legno dove sopra sono posati diversi libri di scuola e la mia borsa.

Mi accorgo che questa stanza non ha nulla di personale: nessuna foto e nessun oggetto che possa permettere di conoscere un minimo la personalità, la vita o il modo di essere di Evan.

Eppure mi aveva riferito che sua madre è una fotografa. Come mai non è presente neanche una foto, in questa stanza?

Mi rigiro dall'altra parte del letto e chiudo gli occhi per un momento.

Alcuni flashback sbiaditi e confusi ritornano a galla. Non è la prima volta che mi ubriaco, ma al ricordo di Evan e di tutto quello che è successo dopo sento le guance avvampare dalla vergogna.

Nessuno può AmarmiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora