R A N A

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Il mio corpo è marcio.
Delle foglie mi scaldano, come una coperta. Il sangue un'aureola secca e i capelli pietrificati in tempesta. Sulla gola è dipinto un sorriso rosso.
Sono stesa su un letto di fango e vermi. Le gambe, dalle ginocchia in giù, galleggiano nell'acqua.
Mi chiedo che ci faccio qui, perché nessuno è venuto a prendermi? Perché la mia pelle è già più scura, la mia bocca casa degli insetti?
Provo a ricordare gli ultimi giorni, le mie ultime ore, i miei ultimi momenti.

È l'anno 2000.
Il nuovo millennio è scoccato pochi mesi fa, ma dove vivevo io non è cambiato nulla.
Mi chiamavano Rana. La mia 'nciuria.
Da noi viene data quasi subito a chi si distingue per qualcosa. Di solito niente di bello.

Era il due di Aprile, la notte prima del mio compleanno. Sdraiata a letto, pancia in su, continuavo a guardare l'ora. Mia madre dormiva già da un pezzo e mio padre era come al solito in viaggio per lavoro.
Mancavano ancora venti minuti a mezzanotte.
Il caldo estivo era già arrivato e, come ogni anno, aveva avuto troppa fretta. Il pigiama mi si appiccicava addosso, i capelli increspati mi pungevano la nuca.
Scalciai il lenzuolo. Erano passati solo cinque minuti.
Sbuffai.
All'improvviso qualcosa colpì la mia finestra, facendomi balzare sul bordo del letto. Mi era sembrato come se un uccello avesse picchiettato sul vetro, un suono veloce.
Mi sentii strana, a disagio, forse per i vestiti appiccicati alla pelle che mi facevano vedere, riflesse nel vetro della finestra, forme che non mi piacevano.
Stavo per rimettermi a letto, quando il suono si ripeté.
Mi avvicinai e guardai sotto. Accanto alla scala anti incendio c'era lui.
Eravamo diventati amici cinque anni prima, quasi per sbaglio. Abitava nello stabile di fronte al mio, lì al complesso Ninfee.
Gli sorrisi.
Se n'era ricordato?
Mi sorrise, poi fece una smorfia di dolore, fingendo di avere un gran freddo. Aprii la finestra e sussurrai: «Ci sono quaranta gradi!»
«Allora, Ranocchietta, mi fai salire?»
Non volevo mi vedesse in quello stato, e mia madre stava dormendo. Ci pensai un attimo. Sorrisi e feci un cenno col mento.
Mi allontanai dalla finestra mentre saliva le scale, incurante del rumore. In realtà ero sicura si stesse divertendo a infastidire tutti gli inquilini della palazzina.
Provai a sistemarmi i capelli, a staccare la maglietta sudata dalla pancia troppo gonfia e ad allargare i pantaloncini stretti sui fianchi.
«Allora, Ranocchietta...» Era seduto sul bordo della finestra, una gamba ancora fuori e un grosso sorriso beffardo che sfidava il buio. In mano stringeva una bottiglia di tequila.
«Sei pronta a invecchiare con stile?»

Di questo posto mia zia mi raccontava sempre. Una parte di me sa perché sono qui. La sento bisbigliare, da qualche parte tra il fegato e lo stomaco, ma non riesco a capirla.
Continuo a guardarmi, i miei capelli che avevo sempre odiato, ricci e neri come la grafite, ogni ciocca punta a una parte diversa.
La mia faccia. Gli occhi grandi e sporgenti, le pupille sottili, quasi impercettibili. La bocca che si stiracchia da un orecchio all'altro. È per questa faccia che mi è arrivata la 'nciuria.
Le mie forme, che avevo sempre giudicato sbagliate, ora mi sembrano quelle di una come tante.
«Clara, sei nata bella e morirai bella. Devi solo crescere».
Così diceva mia mamma.
Mia zia, invece, diceva che la mia faccia era colpa della maledizione dello stagno.
«Che maledizione?», chiesi una volta, giocherellando col suo pacchetto di Marlboro.
Lei rise, una risata quasi silenziosa la sua, sollevava il forte petto ed emetteva come un grugnito, ma non sorrideva.
«La maledizione che ci ha prese tutte, Ranuzza, tutte noi donne del complesso».
«Sì, ma che succede?»
«Siamo tutte sfortunate, ecco che succede! Tuo padre è...beh, te lo dirà tua madre cos'è. Tuo zio se n'è andato dopo tre mesi di matrimonio...»
«Ma lo zio Mario è simpatico!»
«Non chiamare zio chi ha già un'altra famiglia, Rana. A te è andata meglio, c'hai solo la faccia strana».
Arrossii. Lei se ne accorse perché rise di nuovo, aspirò una boccata di fumo e mi scompigliò i capelli.
«Tranquilla, Ranuzza, che le donne della nostra famiglia sono guerriere. Se vuoi rompere la maledizione puoi sempre catturare la creatura dello stagno».
La fissai con occhi vuoti.
«Ma ti devo insegnare tutto? È un mostro terribile! Quando hanno costruito 'sti palazzi, anni fa, lo hanno fatto attorno allo stagno che sta qui dietro... è lì che vive».
«Mamma dice che lì non ci posso andare. Che è pericoloso».
«E ha ragione, ma per i motivi sbagliati. Lo è per via del Cicieddu. Così si chiama. È come una grossa lucertola, vecchia come il mondo. La sua pelle cambia colore sotto la luce della luna, diventa come madreperla. C'ha gli occhi caldi e dorati, come il miele. Quando hanno costruito i palazzi, le hanno ucciso il compagno e distrutto le uova, prima che si aprissero. Ora è sola».
«Perfetto, allora io la catturerò!»
Mi aveva guardato come un gatto, con un misto di sfida e rispetto.
«Tu sei troppo arrogante, Rana».
«Mi chiamo Clara».
«No, se non ascolti i consigli di chi sa più di te. Fino a quando non catturerai la creatura, sarai Rana».
Mia zia se n'era andata due anni dopo, mamma mi aveva detto che le si era spezzato il cuore. All'inizio avevo pensato fosse solo un modo carino per definire un infarto. Poi lei mi aveva guardato, le guance sporche del mascara colato, e aveva detto che ero una stupida se la pensavo così. Che, se ancora alla mia età non avevo capito qual'era la maledizione di famiglia, non mi sarei mai liberata della mia.

R A N AWhere stories live. Discover now