1st chapter

183 16 5
                                    

Vento in faccia.

Avete presente quella sensazione di libertà che solo la solitudine può dare?

La solitudine è libertà.

Come nessuno deve preoccuparsi per me, io non devo preoccuparmi per nessuno. Non ho bisogno di avere paura di ferire qualcuno o di sbagliare qualcosa. Quindi, semplicemente sto da solo, mi sta bene e credo stia bene anche agli altri.

Cosa c’è di più libero di questo.

Vespa 50, niente casco, i ricci liberi al vento e Bon Iver nelle cuffiette, per una delle strade più isolate e abbandonate della periferia di Roma, perso tra gli alberi sul ciglio della corsia e qualche cane randagio qua e là, solo e abbandonato.

Accompagnato dal vento potevo sentire ogni problema, ogni rimorso, ogni parola mai detta e ogni lacrima mai versata.

Attraversandomi il viso, scendevano per il collo come dolci baci rubati prendendomi stretto per il petto, quasi da bloccarmi il respiro, scivolavano lungo le braccia e la schiena, per poi lasciarmi del tutto, senza pensieri, con una piacevole sensazione di vuoto e di calore nello stomaco, fino al termine di questo piccolo e liberatorio ciclo.

La musica, gli uccelli che volavano all’orizzonte sullo sfondo di un tramonto rosso fuoco, il vento:  questa combinazione, all’ apparenza piccola, inutile e insignificante, mi rilassava.

Mi ritrovavo su quella strada ogni sera.

Una strada dritta, circondata da alberi, terre, panorami mozzafiato e qualche piccola casa poco curata di anziani, che preferivano avere un rifugio -mentale- per la vecchiaia, lontano dal caos della città di Roma.

Mi ritrovavo lì senza accorgermene, subito fuori casa e con la vespa in moto.

Come gli anziani vi trovavano rifugio dalla caotica vita di città, io vi trovavo rifugio dal caos infernale che era la mia vita.

Pensando a ciò che mi succedeva, mi ritenevo colpevole di ogni mio problema e di ogni problema causato agli altri.

Chiunque dopo avermi incontrato sembrava diverso, arrabbiato nell’anima, spento negli occhi e nelle espressioni di finta felicità, e totalmente triste e sconfortato dai miei atteggiamenti.

Finivo col chiudermi in me stesso, nella mia piccola e stupida cameretta, con la schiena al muro e la testa poggiata, immobile per ore a fissare i poster e le foto accumulati in 25 anni della mia vita, incolpandomi di tutto il male che circondava me e le persone che mi volevano bene.

Ma la colpa non era mia. Oh, non lo era per niente.

Forse è stato il destino a volere questo cambiamento negli altri, e per gli scettici, sarà stata il loro subconscio.

Tutti, avrebbero potuto essere più forti, avrebbero potuto almeno provare a mantenere il loro carattere.

Invece come stupidi e superficiali, si sono lasciati trasformare e trascinare impotenti da un vento leggero, in quello che in realtà già erano, nascosto nel profondo delle loro anime.

Sapevo di poter sembrare uno di quelli che alla fine cerca sempre di incolpare gli altri – o magari lo sono e ancora non riesco ad autoconvincermi –, ma non ero io a volere questa situazione.

Erano loro a volermi diverso.

Erano loro a volermi cambiare e questo non succederà mai, perché non lo permetterò a nessuno. Né alla persona che amo, né alla mia mente e nemmeno al mio cuore che, navigando in questo mare di sbagli, per non affondare tenterà sempre di farmi naufragare verso nuovi e diversi orizzonti, che non raggiungerò e mai vorrò raggiungere.

Questo sono io, un semplice ragazzo di 25 anni amato da tutti e sostanzialmente da nessuno, che trova tristezza in ogni angolo della sua esistenza e felicità in un posto isolato, bravo a nascondere il suo tormento grazie a finti sorrisi a portata di mano e segreti nelle tasche dei jeans.

Questo è Simone, questa è la mia vita che terrò bella stretta e questa è la mia storia di ricordi felici, che nessuno riuscirà mai a dirottare e distruggere.

Immerso tra i pensieri e la tranquillità della situazione, chiusi gli occhi per abbandonarmi e farmi avvolgere ancor più dal vuoto caotico che riempiva fino all’orlo la mia mente.

Sentii una macchina arrivare e  sovrappensiero, non ci feci nemmeno caso immediatamente.

Sentii i freni fischiare.

Aprii gli occhi di scatto ma fui più lento nel mettere a fuoco.

Prima dello scontro pensai di lasciarmi cadere dalla vespa in movimento, forse giustamente, per evitare danni fisici, e il cuore quasi mi scoppiò all’istante per la paura.

Sentii un grande rumore di ruote che sfregavano e stridevano per l’attrito sull’asfalto, assieme ad un clacson assordante.

Un urlo straziante, un tonfo secco e nero.

Null’altro che nero.

E infinito nero.

DaisiesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora