Sono cresciuta in un paese di campagna, nel nord dell'Inghilterra, dove le persone sono e restano saldamente ancorate alle tradizioni di un tempo, cercando di tramandarle nel migliore dei modi di generazione in generazione.
Ecco, io non sono contraria a tutto ciò, trovo che certe usanze siano troppo importanti per essere dimenticate, ma a volte ancora mi sorprende la mentalità chiusa e ottusa di certe persone, quando vivi a chilometri dalla società.
Non sono cresciuta male, anzi. I miei genitori hanno sempre fatto di tutto per far sì che venissi educata nel migliore dei modi, nonostante la loro modesta condizione.
La mattina si trasferiscono entrambi in città per lavoro e al pomeriggio mio papà si occupa degli animali d'allevamento, quei pochi che ci sono rimasti, nella stalla e mia mamma si prende cura dell'orto nel cortile sul retro. Non è stata un annata particolarmente proficua, questa, dice sempre. L'estate precedente ha fatto troppo caldo ed è marcito quasi tutto. Quando invece, sembrava che le piante si stessero rimettendo, è arrivato l'inverno ed ha gelato tutto. Ma mia mamma rimane fiduciosa, dice che con la primavera che sta per arrivare si rimetterà tutto a posto. Lei ci tiene tanto.
Io ho trascorso quasi tutta la mia infanzia da sola; la mattina andavo a scuola, al pomeriggio tornavo a casa, facevo i compiti e poi stavo in giardino, oppure leggevo, o guardavo la televisione.
È stato quando ho iniziato ad andare al liceo che è avvenuto il cambiamento. Tutte le mattine mi recavo nella città di provincia per andare a scuola. Mi piaceva studiare, ma non mi piaceva quando erano gli altri ad impormelo. I miei genitori, per esempio. Entrambi erano insegnanti di letteratura inglese e avevano insistito perché seguissi le loro orme, nonostante io da sempre abbia lottato per studiare le materie scientifiche, ciò che più mi appassionava.
Così, qualche mese fa, ormai un anno a dire il vero, mi sono diplomata in lingue e rimango totalmente dell'idea che io, con questo titolo, non ci combinerò niente.
Mi alzo dal letto lentamente e mi guardo intorno.
Sì, dovrei aver preso tutto.
Per terra ci sono degli scatoloni di cartone pieni di tutti i miei giocattoli di quando ero bambina e delle valigie, nelle quali sono riuscita a far entrare quasi tutto il contenuto del mio guardaroba e qualche oggetto da cui non ho intenzione di separarmi.
Di colpo, la stanza dentro alla quale sono cresciuta mi sembra vuota, malinconica. Le pareri che una volta erano tappezzate di foto e di cornici adesso sono scabre e inespressive. Il letto pieno di cuscino colorati è solo un materasso bianco e il pavimento è ricoperto da oggetti impacchettati e imballati.
Perché nonostante io sia nata e cresciuta in un paese occidentale, ci sono alcune tradizioni da cui la mia famiglia -e tante altre- non si vogliono staccare. Una in particolare: quella del matrimonio combinato.
Che per loro è diverso dal concetto di matrimonio forzato, perché io non sarei dovuta essere contraria, anzi onorata.
E ovviamente, per me, dire che ero contraria a sposarmi a diciannove anni con un completo sconosciuto, era come riderci sopra.
Avevo minacciato i miei genitori di scappare di casa, di andare dall'altra parte del mondo, di cambiare nome e non farmi trovare mai più, ma mai aveva funzionato. E a scappare, a dire il vero, ci avevo anche provato. Avevo vagato per due giorni nei boschi, fino a che le unità cinofile non mi hanno trovata mezza assiderata, segnalandomi e riportandomi a casa.
Quella è stata l'unica volta in cui ho sentito mio padre urlare e ho visto mia mamma piangere.
Per loro era normale, cercavano solo di proteggermi. Pensavano che tramite il matrimonio combinato mi avrebbero garantito sicurezza, protezione e stabilità economica. Perché secondo la loro teoria, i genitori sono più saggi dei figli, sanno scegliere con più precisione ciò che può fare realmente al caso nostro. E l'amore non è un problema, l'amore viene dopo.
Anche loro si erano sposati così. Entrambi provenienti da famiglie così chiuse di mente non avevano fatto altro che trovarsi. Ed era vero, si amavano, ma io non volevo questo per me stessa.
Volevo sentirmi libera di scegliere chi amare.
Nelle settimane precedenti si erano occupati di incontrare la famiglia del mio probabile futuro marito, era per conoscersi meglio, dicevano. Per scambiarsi opinioni e giudizi e vedere se i valori di entrambe le famiglie combaciassero.
Mi avevano raccontato che un tempo andavano al liceo insieme con i genitori di questo ragazzo, e che nonostante si conoscessero di vista non si erano mai rivolti la parola in modo diretto.
«Sembrano persone interessanti,» mi ripeteva mia mamma, «e parlano davvero bene di loro figlio.»
Già, loro figlio. Non lo avevo mai visto ma già sapevo che avremmo avuto problemi.Del resto, non potevo aspettarmi nulla di meglio da un matrimonio combinato di cui non volevo fare parte.
«Calum Hood.» Mi aveva confidato mia madre un pomeriggio d'inverno. «Sarà lui, il ragazzo fortunato.» Aveva aggiunto, portandosi le mani al petto.
Io avevo alzato gli occhi al cielo, sbuffando.
«Davvero molto fortunato.» Mio padre era apparso dalla porta della cucina, scuotendo la testa. Il suo tono di voce sembrava provocatorio. «Impazzirà dopo nemmeno una settimana con lei. Agisce solo di testa sua, non dà mai conto agli altri.»
A lui non sono mai andate giù le mie scelte, ha sempre cercato di deviarmi. Un uomo con il pancione che cerca di mettersi tra me e il mio futuro, negandomi completamente il libero arbitrio.
«Lo sai che lo fa per il tuo bene.» Diceva sempre mia madre.
Ma io non la pensavo così. Trovavo estremamente bigotta la realtà in cui ero costretta a vivere ogni giorno, sin da quando ero nata.
«Diana, tra poco dobbiamo andare.» Mia mamma compare alla porta, riportandomi alla realtà.
Scuoto la testa velocemente, per cacciare tutti i pensieri.
«Sì... arrivo.» Rispondo abbassando la testa, sconfortata.
Capisce che c'è qualcosa che non va. Lei lo intuisce sempre.
Sa cosa significa abbandonare tutte le tue abitudini per costruirne di nuove con una persona che non conosci. Lei lo ha passato, anche lei, ai suoi tempi, aveva lottato per la sua libertà. «Adesso però sto bene, se dovessi tornare indietro lascerei semplicemente che le cose accadano, senza mettermi in mezzo.» Mi rimproverava sempre. E io annuivo. Ero costretta a farlo.
«Sù, tesoro, sono sicura che lui ti piacerà. E poi, la sua casa è una meraviglia, lo sai che è una famiglia benestante e può garantirti una vita migliore di quella che hai qua.»
Io, però, col tempo avevo imparato ad accontentarmi. E mi andava bene così.
Mia mamma mi lascia un bacio sulla fronte. «Su, inizia a portare le valigie di sotto. Chiedo a tuo padre di aiutarti con quelle più pesanti.» E l'istante dopo già non c'è più, i suoi passi leggeri fanno scricchiolare le scale di legno segnate dal tempo.
Tiro un lungo sospiro, affranta.
Avrei soltanto dovuto abituarmici, poi sarebbe andato tutto bene.
Non avevo alternative.

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Tied up; Calum Hood
Fanfiction«Sono legata.» Mormoro a bassa voce, con quel poco di fiato che la pressione delle corde sul mio petto mi concede. «Lo so, lo vedo.» Risponde Calum, ghignando. Non riesco a rispondere, ma so esattamente cosa rispondere. Mi sento completamente in bal...