Morta

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Quando mia madre morì, Tessa era con me.

Ed era anche una perfetta sconosciuta.

Eravamo nello stesso ospedale per ragioni diverse: Tessa era stata ricoverata perché era anoressica ed era ormai uno scheletro, io passavo le mie giornate lì perché mia madre era malata terminale e volevo starle vicino fino alla fine.

La prima volta che l'ho vista camminavamo in direzioni opposte nel luminoso corridoio dell'ospedale e ricordo che la fissai, non perché fosse effettivamente molto simile a uno scheletro vivente, ma per l'espressione furibonda che aveva e per la rabbia con qui trascinava il palo a cui era attaccata la flebo. Ero sorpresa che riuscisse anche solo a sollevarlo con quelle braccia-stuzzicadenti che aveva, eppure tant'era, lei trascinava il suo palo e io trascinavo i piedi verso la camera di mia madre. Quando non ero in ospedale, volevo andarci. Quando ci arrivavo, puntualmente, volevo scappare.

Tessa – che ovviamente non sapevo ancora si chiamasse Tessa – non ricambiò il mio sguardo, concentrata com'era sulla sua missione di trascinamento del palo della flebo in giro per il reparto. Guardandola passare mi chiesi dove fosse diretta; la porta in fondo al corridoio era perennemente piantonata da un'infermiera cicciottella col rossetto viola, perciò non avevo idea di come avrebbe fatto a uscire da lì anche se avesse voluto farlo.

In ogni caso, la furibonda ragazza anoressica fu solo un breve fulmine incrociato nel mio cammino quel giorno. I miei pensieri erano altri e mi dimenticai di lei non appena svoltai l'angolo del corridoio e la porta della camera di mia madre fu in vista.

La mamma era come sempre. Sotto antidolorifici, immersa nel sonno e con la pelle gialla per la bilirubina che era andata in circolo dopo che il fegato aveva smesso di funzionare. La routine era la stessa da una settimana, troppo poco perché potessi abituarmici e troppo perché potessi sopportarla: entravo, le prendevo la mano, mi sedevo a fianco al letto e non abbandonavo più la postazione se non per andare in bagno o andare a prendere un tè. Le infermiere mi lasciavano rimanere e anzi si erano offerte di portarmi il pranzo e la cena, perciò rimanevo lì e ogni tanto arrivava anche il papà, che voleva stare lontano da lì ma non ci riusciva del tutto.

La fine la sapevamo entrambi, quando sarebbe avvenuta era la vera domanda.

Sta di fatto che quel giorno ero da sola ed ero seduta accanto alla mamma, con la TV accesa, quando entrarono due infermiere; dovevano lavarla a quanto pareva e questo significava che io dovevo uscire e lasciarle fare il loro lavoro. Uscii.

Il reparto in cui avevano messo la mamma era pieno di anziani, altri malati come lei non ne avevo visti, ed era estremamente luminoso, con corridoi ampi e grandi finestre. Sarebbe potuto essere davvero un bel posto, se non fosse stato per la funzione che svolgeva, e lo pensavo sempre, anche in quel momento mentre vagavo senza meta in attesa di riprendere la mia postazione di routine.

Dalla finestra si vedeva il tramonto, un sole rosso fuoco che scendeva cauto dietro le montagne, e sembrava così strano e lontano... Quand'era l'ultima volta che ero uscita ed ero andata a fare una camminata senza avere il terrore che succedesse qualcosa mentre non c'ero? Non ne ero sicura. Avevo 18 anni ma me ne sentivo addosso 100 e il mondo esterno sembrava così lontano, come se fosse qualcosa che non faceva più per me. Avrei voluto raggomitolarmi come una pallina e rimanere lì in un angolino, inattaccabile e protetta, senza pensare più a niente. Avrei voluto fermare tutto perché era tutto dannatamente ingiusto: mia madre moriva così, dopo anni e anni di terapie, dopo anni e anni di sofferenza, di pianti, i capelli che le cadevano e il suo corpo che si sgretolava pezzo per pezzo, cellula per cellula. Non poteva essere né giusto né accettabile.

Senza pensarci ero arrivata alla sala con la televisione. Non avevo mai capito se fosse una sala d'attesa o una sala di ritrovo o se fosse solo una sala con la televisione, stava di fatto che lì non c'era mai nessuno se non qualche infermiera. Quando la mamma poteva ancora camminare, prima che entrasse in quella specie di coma in cui era, venivamo fino lì nella saletta, lei aggrappata al mio braccio e ci sedevamo a uno dei tavolini... l'ultima volta la ricordavo molto bene perché era stata l'ultima volta che eravamo state da sole e che lei era ancora lucida e non ci eravamo dette nulla. Io non sapevo di che cosa parlare e lei era esausta e non voleva parlarmi del dolore che stava vivendo per non rattristarmi. Eravamo rimaste in silenzio con un abisso in mezzo a noi.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Mar 12, 2020 ⏰

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