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Io ho da sempre odiato il colore nero.
Odiavo quando, correndo su e giù per le vie affollate di Busan per arrivare puntuale alla prima ora di lezione, cadevo e mi sporcavo tutta la maglia.
Il fango (insieme ad altri elementi di dubbia provenienza) si mischiava col candore della mia maglietta, trasformandola da bianca e pulita, a nera e puzzolente. Puntualmente, una volta arrivato a scuola, gli occhi di tutti gli studenti si posavano su di me, scrutandomi, deridendomi, uccidendomi. Già non ero di certo lo studente modello di tutto l'istituto, ci mancava solo che la mia divisa (rovinata in partenza dalle mie storiche cadute) subisse altri danni.

Io ho da sempre odiato il nero.
Per molto tempo evitavo quel colore perché mi lasciava sulle labbra il gusto amarognolo della morte. Perché, sì, io la morte l'avevo affrontata così tante volte, che, ormai, era diventata la mia migliore amica (l'unica, per essere precisi).
Morivo quando il dito indice di tutti preferiva scegliere me come Nord, e mai come Sud, nemmeno quando non c'entravo proprio nulla, in quelle stronzate.
Morivo quando, intenzionato a comprare del cibo che potesse  mantenermi in vita (non granché, ah! Il giusto indispensabile, con i pochi spiccioli che portavo in tasca), incontravo il solito gruppo di teppistelli fuori dal supermercato, in cerca di rogne.
E chi potevo essere io, per negargliele?
Mi riempivano di pugni e calci, è vero, però i loro colpi erano talmente forti da farmi dimenticare tutto quel nero, facendomi vedere, invece, tutto bianco. Quant'è bello quel colore? Quant'è bello, soprattutto, risvegliarsi in una stanza di ospedale, dove quel bianco asettico delle pareti, dei pavimenti e delle lenzuola portava un po' di luce al mio cuore di tenebra?!
Sono morto quando mio padre è morto. È da sempre stato una figura di riferimento per me, forse l'unica. Era un pittore, e a causa di questa sua passione non ho mai passato molto tempo con lui. Era troppo occupato a sporcarsi le mani di tempera per chiedere a suo figlio come fosse andata la giornata. Non gliene ho mai fatto una colpa, dopotutto lo biasimavo. Quella donna, che fino a poco tempo prima portava al dito l'anello di una promessa infranta ancora prima di esser stretta, l'aveva tormentato per così tanti anni che ha necessariamente dovuto trovare quel quid, quel "qualcosa" che potesse distrarlo dal suo, di nero.
E quale meglio soluzione se non riempire la propria vita di colore?

Ho sempre odiato il nero.
A scuola, purtroppo, non sono mai stato una cima. Non che non me ne importasse minimamente di studiare (anche), ma i libri non facevano davvero per me.
Quando da piccolo i miei genitori mi portarono davanti uno strano tizio con gli occhiali dalle lenti spesse come due fondi di bottiglia, mi spaventai, ad essere sincero. Dovetti eseguire un test perché, solo allora, i miei si accorsero che non ero in grado nemmeno di scrivere bene il mio nome. Tornato a casa, i miei cercarono di spiegarmi il significato di "dislessia" e "discalculia"..ma cosa ne poteva mai sapere un bambino di 8 anni?
Ricordo di essermi ritrovato più e più volte davanti allo specchio della mia cameretta dalle pareti di un verde nauseante, cercando di ripetere le parole che mi disse quel giorno mio padre: "non sei strano, piccolo. Sei speciale".
Pft, che stronzata. L'ho sempre (e, ripeto, sempre) ritenuta una stronzata abissale, perché il mio deficit non era assolutamente un superpotere, come invece lo pubblicizzava mio padre.
Le parole decidevano sempre di scendere da quei gradini scomodi del mio quaderno, stanche di restare lì per tutto il tempo.. e come biasimarle!
Le vedevo prendersi per mano e danzare sulla superficie un po' stropicciata della pagina, dedicandosi ad acrobazie circensi, facendo piroette e capriole. Era davvero uno spettacolo magnifico, ma non tutti la pensavano come me.
E allora tutte quelle ballerine cominciavano a confondersi tra loro, forse per un cambiamento improvviso di musica.
La bella esibizione si trasformava in un tornado di termini, tutto troppo nero. Così buio che mi attanava il cuore in una morsa stretta e soffocante.

Ho odiato il nero.
Un giorno ero uscito di casa, sempre per comprare qualcosa da mandare giù, non che ne avessi necessariamente bisogno. Era il giorno in cui mio padre ebbe l'incidente, il giorno dell'anniversario della sua morte, perciò la fame veniva sempre meno.
Ciononostante, avrei dovuto davvero mangiare qualcosa o sarei svenuto per strada.
Dopo esser scappato dai malintenzionati del market all'angolo ed essere nuovamente inciampato su una buca non riparata al centro della strada (non la notavo mai, quella stronza), mi sono messo a cercare disperatamente un negozio aperto di rameyon.
Il mio stomaco brontolava, il mio naso perdeva sangue e i miei vestiti puzzavano tremendamente. Sembravo quasi un barbone. O un vandalo. Un vandalo barbone. Ed è forse per questo motivo che, appena entrato nel primo negozietto economico di ramen che ho trovato lungo la strada, sono stato sbattuto via a calci. Davvero una serata di merda.

Stanco, sporco e sanguinante, mi sono ritrovato seduto (o meglio, stravaccato) sopra una panchina sgangherata di un parco, che dalle pessime condizioni in cui si presentava e la presenza assente di qualsiasi anima viva, sembrava esser abbandonato.
Come c'ero finito lì? Non ne ho la minima idea, nemmeno a pensarci adesso.
Fatto sta che ricordo di aver alzato lo sguardo al cielo ed aver imprecato ad alta voce. Quella sera il cielo era senza stelle.
Mi ricordava un po' la mia vita.
Quando mai ho potuto davvero ridere di cuore, facendo splendere quella stupida dentatura dagli incisivi un po' troppo sporgenti?
Quando mai ho avuto qualcuno al mio fianco?
Quando mai sono stato ammirato per quel che sono, desiderato da qualcuno?

Le stelle erano esattamente tutto ciò che io non ero, e quella notte senza stelle mi ricordava troppo la mia vita.

Per questo decisi di chiudere gli occhi.

Appena lo feci, abbandonandomi sullo schienale di quella panchina malridotta, ho sentito degli strani rumori, simili a dei passi. E poi un tonfo. Che qualcuno si fosse seduto nella panchina? Mentre c'ero seduto io? Pronto a disturbare quel poco riposo che tanto agognavo? Chi era? Un pazzo, forse?
Aprii un solo occhio, pronto per mandarlo a quel paese, quando mi accorsi che la persona in questione fosse un ragazzo. E mi stava fissando.
Un ragazzo, folle, nel cuore della notte, in un parco abbandonato, mi stava fissando. Perché?

«Ti esce sangue dal naso e hai la maglietta tutta sporca» mi disse, inserendo le mani nelle tasche dei suoi pantaloni di marca.
Capitan Ovvio, che poi si presentò col nome di Kim Taehyung, rappresentava proprio tutto ciò che più detestavo.
I suoi capelli erano neri, neri come la pece, neri come il cielo sopra le nostre teste. Aveva una voce talmente profonda da ricordarmi i fondali del mare, dove i raggi del sole non possono raggiungere il mare e il buio regna sovrano. Vestiva di nero dalla testa ai piedi, come uno strambo cupo mietitore con un paio di mocassini firmati Gucci.

Odiavo il nero.
Io odiavo il nero, così tanto da pensare di odiare pure quello strano ragazzo, che, nei giorni a seguire, scoprii frequentare il mio stesso istituto.
Io odiavo il nero, lo odiavo con tutto me stesso.. ma allora come sono finito ad innamorarmi di lui?

Com'è successo che, tutto ad un tratto, ho desiderato tenere tra le mani quei riccioli neri che decoravano disordinatamente la sua testa?

Come ho fatto a voler sentirlo sussurrare al mio orecchio quanto tenesse a me, quanto mi amasse, per poter sentirmi bene, per poter tornare a respirare? Per poter prendere quel respiro che, prontamente, mi veniva rubato da un suo bacio a fior di labbra?

Da quando, esattamente, ho cominciato a bramare il suo corpo?

Da quando ho cominciato ad ardere per lui, agognando per poter togliergli quei vestiti da "figlio di papà" e baciare ogni centimetro della sua pelle?

Era diventato la mia stella in così poco tempo, e nemmeno me n'ero reso conto.

Io odiavo il nero, è vero, eccome se lo odiavo.. però, ora, con lui, non è più così male.

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⏰ Ultimo aggiornamento: May 08, 2020 ⏰

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