Dietro ad un velo

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Mi manca così tanto la nebbia che nascondeva le colline intorno a casa mia, il freddo che mi entrava nel cappotto facendomi venire i brividi, i frutti che vedevo crescere nell'orto e tutto quello che rendeva magnifica l'Italia.
Guardando verso nord mi immagino tutte le persone che ho incontrato, le immagino al lavoro, a scuola, a casa, tutti impegnati nelle loro attività quotidiane, probabilmente senza pensare a me che sto per andarmene via, per sempre.
Via, via su una barca piena di persone, verso un paese che non ricordo, verso una terra che avrà un sapore sconosciuto per me e per tutti gli altri ragazzi che mi sono intorno. Perché è così che hanno deciso gli italiani, le stesse persone con le quali convivevo sullo stesso suolo, e che mi chiamavano amica... amica! Mi hanno cacciata, derisa, insultata! Quando mi guardavano avevano paura di me! Di me! Perché! Perché?!?

Tesoro dobbiamo andare, è il nostro turno≫.

Mia madre si avvicina a me, appoggiando delicatamente le sue mani sopra alle mie spalle, sospingendomi verso la barca che è appena arrivata: non sembra stabile, non sembra che possa galleggiare o che possa superare il Mediterraneo.

Una volta c'ero stata su una barca: avevo fatto un giro sul lago di Como, con una mia vecchia amica. La mia pelle ha ancora ricordo del vento che mi accarezzava mentre il battello procedeva su quello specchio d'acqua torbido, il mio naso ancora soffre ripensando alla puzza che emanava quel luogo, i miei occhi versano ancora lacrime rimembrando tutti quei pesci morti che galleggiavano sull'acqua. Quel lago era diventato luogo di morte, come molte riserve naturali in tutta Italia, nel giro di soli pochi mesi.
Anche il mare aveva subito lo stesso destino: migliaia di cadaveri riversi in mare, balenottere morte, pesci, pescatori, civili, soldati.

Documenti!≫.

Davanti alla bagnarola una guardia ferma il passaggio con un braccio, guardandomi con aria truce. Io, spaventata dalla sua presenza, arretro di un passo, andando a sbattere contro il petto di mia madre. Lei mi incita a rispondere all'uomo, indicando la mia tasca sinistra, dove avevo stipato il mio passaporto, nascosto tra fogli di carta e penne. Armeggio con la zip qualche secondo prima di infilare dentro la mia mano e tirare fuori il documento. La guardia osserva tutti i miei movimenti, le dita tremanti che stringono il passaporto, i denti che mordono il labbro inferiore, gli occhi che si muovono schivi, cercando di evitare il suo sguardo. Lui spazientito mi prende il documento dalla mano, lo apre e guarda la mia foto.

Mi era capitato un tempo di osservare per svariati minuti la mia immagine: a volte, seduta sull'autobus semivuoto che mi portava a scuola, guardavo la tessera dell'abbonamento tracciando con gli occhi linee invisibili che creavano la forma ovale del mio volto. Un viso che però non era per niente coperto dal velo: eravamo io e la mia intimità, nella stanza di una fotografa, insieme a mia madre.
Ehi nera di m*rda!≫.
I miei occhi passarono velocemente dalla tessera al ragazzo che mi aveva appena insultata, maledicendo immediatamente il mio gesto avventato: ero l'unica persona di pelle scura su quell'autobus, era la prima cosa che notavo quando salivo su un mezzo pubblico, ma aver risposto passivamente alla chiamata mi avrebbe portato solo guai.
≪Sì, tu. Vedo che quando vi chiamiamo per nome ci rispondete≫.
Il ragazzo non era solo: a parlare questa volta fu un suo amico, insieme ad altri ragazzini che sedevano in fondo all'autobus. Ridevano e schiamazzano alla battuta dell'amico, ma sembravano avere tutti quindici anni, erano dei bambini.
≪Sai che l'Italia è un paese cristiano e che non puoi metterti il velo in pubblico, vero?≫.
≪Mostra rispetto per noi italiani! Ti facciamo salire sui nostri bus solo perché siamo magnanimi!≫
≪Fatti vedere putt*na! Svestiti!≫.
L'autobus si fermò: nessuno disse nulla, nessuno sgridò quei ragazzi, nessuno mi difese. Mi guardavano tutti con occhi impauriti o pieni di rancore, si allontanavano impercettibilmente da me osservandomi scendere dal mezzo.
Quando i miei piedi furono a terra rimasi ferma con occhi bassi, mentre le persone mi superavano per andare dentro. Evitavano il più possibile ogni contatto con me, non mi davano neanche una spallata, come se portassi sui miei vestiti larghi migliaia di malattie.
L'autobus ripartì e io ero ancora bloccata alla fermata, su un marciapiede dove non avevo mai messo piede. Piangevo cercando di non singhiozzare. Ero così triste che non riuscivo a capire quale strada dovessi prendere per andare a scuola.
Guardavo la mia foto senza velo, in quegli occhi seri di una ragazzina che non avrebbe mai immaginato di trovarsi lì, chissà dove, piangendo perché l'avevano bullizzata.
In verità avrei voluto rispondere sull'autobus, magari prima di scendere. Avrei voluto rispondere pacatamente, senza mostrare alcuna emozione se non la calma.
≪Italiani non proprio≫ avrei iniziato. ≪Non conoscete neanche le leggi italiane perché, uno, la legge permette lo hijab e due, l'Italia è un paese laico. Prima di insultare qualcuno studiate≫ e poi sarei scesa tranquilla, indirizzandomi verso la scuola.

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