Pov NIC
C'erano stati mille motivi per cui da sempre arrivavo tardi in studio, ma grazie alla finestra di camera mia, che enorme e bianca, si affaccia sulla strada di accesso di uno dei parchi di Bologna, avevo smesso di farlo.
Nonostante sia sempre stato un gran dormiglione, da un po' di tempo ero solito svegliarmi prestissimo la mattina, prendere la grande poltrona in velluto blu, metterla proprio di fronte alla finestra aprendo le tende giusto quel poco che basta per vedere fuori, e aspettare. Aspettarlo.Lo facevo da cinque mesi ormai, dalla mattina in cui Dario ebbe il primo attacco di panico in studio.
Eravamo rimasti soli durante la pausa pranzo e all'improvviso mentre fissava il monitor di fronte a se aveva iniziato a respirare affannosamente, in modo sempre più pesante. Sembrava non sentire la mia voce che cercava invano di scuotere il suo sguardo, inghiottito da una pagina bianca di Word: tutti i suoi muscoli erano tesi, le mani serrate intorno ai braccioli della poltroncina, e le gambe si agitavano affannosamente sotto la scrivania. Poi, mentre quel respiro si faceva sempre più corto e il mio implorarlo di guardarmi e di rispondermi sempre più impaurito, come d'improvviso era iniziato, d'improvviso Dario si era scosso, aveva ripreso a respirare ed era crollato in lacrime sfinito, scusandosi con me.
"Scusa Nic, scusa, non dovevi vederlo." Aveva detto affannosamente.
Mi aveva rassicurato sentire la sua voce, ma il cuore mi batteva ancora fortissimo, il cervello aveva rilasciato quantità enormi di adrenalina e sentivo gli occhi umidi colmi di lacrime impaurite.
"Cos'è che non dovevo vedere Dario?" Gli avevo chiesto io, chinandomi davanti a lui mentre si reggeva la testa fra le mani.
"Questo. Nessuno doveva vederlo. Non tu. Scusami." Mi guardava dritto negli occhi, poi si era alzato di scatto, ma un giramento di testa lo aveva fatto ricadere sulla sedia.
"Non serve che ti scusi, ti prendo un po' d'acqua." Voltandomi avevo ripreso fiato anch'io e avevo cacciato indietro le lacrime.
Dopo un attimo ero tornato da lui, ci eravamo seduti uno accanto all'altro per terra, con le spalle contro il muro e mi aveva raccontato che da quando si era trasferito a vivere da solo, tutte quelle piccole ossessioni che aveva sempre avuto si erano trasformate in enormi mostri che lo stavano divorando, incubi che si manifestavano non appena aprisse gli occhi. In più il libro che stava scrivendo lo sottoponeva al giudizio ipercritico di un editore, ma sopratutto di se stesso, e per questo la sua mente aveva iniziato ad inchiodarlo a una routine ogni giorno più serrata: orari, compiti e perfino gesti, tutto organizzato, tutto perfettamente secondo i piani. Il suo corpo però aveva finito per crollare e sempre più frequentemente, si ribellava con uno di quegli attacchi di panico che avevo visto poco prima.
"Ti prego aiutami Nic." disse appoggiando la testa sulla mia spalla.
Io non seppi rispondere, ma appoggiai a mia volta la testa alla sua, come a dirgli che c'ero, e pian piano sentii il suo respiro tornare lento, cadenzato e calmo. Rimanemmo lì con gli occhi chiusi in silenzio per un pò, avevo quasi paura a muovermi o a parlare, non volendo interrompere quel momento di apparente quiete, ma appena si sentirono le risate degli altri fuori dalla porta, lui si alzò, pregandomi di non rivelare niente di quello che era accaduto e io gli diedi subito la mia parola.
Per tutto il resto del giorno lo guardai, scrutando ogni suo movimento e stando attento ad ogni suo respiro, notando una miriade di minuscole crepe nella corazza che si era creato, che ora, ai miei occhi, lasciavano intravedere tutta la sua fragilità.Quella notte dormii male, mi svegliavo di continuo rivedendo quella scena, così intorno alle cinque del mattino mi arresi, presi la poltrona, la misi davanti la finestra e iniziai a guardare fuori. Ero lì da circa un'ora e quando si stava per fare giorno, scorsi una figura familiare: Dario passò correndo di fronte casa mia.
Lo avrebbe fatto ogni giorno feriale o festivo, sereno, ventoso, piovoso o nevoso, per tutti i cinque mesi successivi. Alle sei e tredici in punto, lui passava correndo e tutti i giorni io ero alla finestra, divorato dall'ansia di vederlo spuntare, terrorizzato che scoprisse che lo controllavo, ma bisognoso della conferma che anche quella mattina si era svegliato, e che stava sufficientemente bene da trovare la forza di andare a correre. Osservandolo avevo imparato che se correva lentamente sarebbe stata una buona giornata per lui, se la corsa invece fosse stata veloce la giornata si prospettava più difficoltosa, mai però come quando passava correndo con le cuffie nelle orecchie: quello voleva dire che sarebbe stata una giornata pessima, che dovevo prepararmi a stare più attento del solito, che dovevo essere pronto a combattere i suoi mostri: era come un segnale, e io non mi ero di certo tirato indietro. Lo avevo protetto dagli occhi e dalle domande di tutti gli altri quando gli mancava il respiro, gli ero corso dietro quando si rifugiava in bagno con gli occhi lucidi, gli avevo teso il mio braccio per farlo tirare su dal divano quando si stendeva sfinito e sopratutto non avevo mai mancato di pensarlo: erano mesi che Dario era sempre fisso nei miei pensieri.
Fino a quel giorno anche lui non aveva mai mancato la sua corsa, anzi in cinque mesi non aveva mai ritardato, nemmeno di un minuto, tranne quella mattina.
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Le finestre hanno gli occhi || OS Nicario || SpaceValley
FanfictionOS. Nic osserva ogni mattina Dario che corre sotto la sua finestra, finchè una mattina Dario manca l'appuntamento.