Capitolo 18. La volontà di premere il grilletto

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Giacomo Resta

Venerdì 9 Agosto 2019, ore 14.54


Non ci prendemmo neanche la briga di immobilizzare in qualche modo il mercenario che Katia aveva steso, avevamo una faccenda ben più urgente a cui pensare. L'unica cosa per cui mi presi qualche secondo, prima di uscire dalla stanza, fu chinarmi a raccogliere la pistola del Tenente Colada.

Non avevo mai tenuto in mano un'arma prima: l'impugnatura era fredda e la sentivo scomoda mentre la reggevo, mi dava una sensazione spiacevole e mi pentii subito di quell'idea. Sapevo, però, che ne avrei avuto bisogno, prima della fine della giornata.

Uscimmo con foga dalla camera: l'accesso da cui eravamo entrati pochi minuti prima era chiuso da due spesse porte scorrevoli a vetri e il resto della corsia sembrava deserta.

Trattenni il fiato per attenuare quanto più potessi il rumore del mio affannoso respiro e rimasi immobile in quella posizione per qualche secondo. Alla nostra destra, a distanza di qualche metro, il corridoio andava a immettersi in un ambiente più spazioso, chiuso soltanto da un'ulteriore coppia di battenti di vetro che stavano, proprio in quel momento, slittando sul pavimento color crema per tornare a serrarsi, espandendo nell'ospedale vuoto un sinistro ronzio.

Poteva essere un caso: spesso le fotocellule montate sull'ingresso impazziscono e inviano il segnale di apertura senza reale scopo, eppure il mio istinto mi diceva che era lì che dovevamo andare. Mi lasciai guidare dal mio sesto senso, perché non avevo nessun altro elemento per capire dove fosse andato Alessio. Feci solo un cenno alla mia compagna d'avventura, prima di muovermi in corsa lungo il corridoio silenzioso.

Sentivo Katia dietro di me: respirava ancora a fatica e, con la coda dell'occhio, notai che zoppicava sulla gamba destra. Mi aveva salvato la vita, quel giorno, ne ero consapevole: se fossi stato io da solo a dover fronteggiare il Tenente Colada, sarei di sicuro morto. Lei invece non si era arresa e aveva combattuto.

Ero felice al pensiero che almeno lei avesse trovato la forza di ribellarsi a quello che la vita le aveva messo di fronte. Quanto a me, toccava il compito più difficile della mia esistenza.

Avevo stimato Alessio per tutti quegli anni, lo avevo considerato una delle persone più buone del mondo; doveva davvero toccare a me il compito di fermarlo e condannarlo a... a che cosa? Ufficialmente era morto e pareva avere delle capacità che non riuscivo a spiegarmi, che cosa avrei potuto fare di preciso per fermarlo?

La pistola che tenevo in mano si fece all'improvviso più fredda e più pesante, come un lingotto di piombo.

No, no, no, no! Non l'avrei fatto mai!

Ho un ricordo di quando ero bambino: camminavo lungo il marciapiede e, da un muretto, era uscita una lucertola che aveva iniziato a zampettare davanti a me.

Infastidito, avevo provato a camminare allargando i piedi in modo da non pestarla, ma, per uno strano scherzo del destino, la lucertola aveva virato verso destra e, prima che potessi fermare il passo, la suola della scarpa era atterrata sull'animale.

Avevo sentito un suono sommesso (era forse stata solo la mia immaginazione?) ed ero raggelato: alzando la scarpa avevo poi visto la lucertola immobile, schiacciata dal mio peso.

Avevo pianto tornando a casa perché sapevo che un essere vivente era morto ed ero stato io il responsabile. Ecco: al solo ricordo di quella lucertola che avevo involontariamente schiacciato, mi torna la famigliare sensazione di tristezza e di colpevolezza... come potevo pensare di voler uccidere un altro essere umano? Come potevo anche solo desiderare di uccidere Alessio?

Ricordi del cielo di quella notteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora