ricordo 0.4 visioni indesiderate.
Sapevo che questa città avesse la fama della nebbia più fitta d’Italia, ma non immaginavo fino a questo punto! Fuori dalla finestra si vedono a malapena i muri delle case dall’altra parte della via. E come se non bastasse ha cominciato anche a piovere, riducendo ancora di più la visibilità. Sembra di essere nel nulla più totale, le luci dei fari si disperdono nella nebbia e le persone sembrano solo ombre indistinte, come fantasmi di giorno.
Una folata di vento mi colpisce in piena schiena gelando le goccioline d’acqua che scendono dalle punte dei capelli lungo il collo per poi fermarsi sull’asciugamano bianco attorno alle spalle, facendomi rabbrividire.
Mi avvio verso il bagno, infilandomi una canotta presa a caso sul divano.
«Sei stata brava, Astrid» si poggia al muro affianco a me con una spalla, incrociando le braccia. Mi guarda con quel mezzo sorrisetto così normale sul suo volto, ma la ignoro. La devo ignorare.
«Anche se, devo ammetterlo, un po’ poco femminile» continua lei avvicinando il pollice e l’indice della mano destra, chiudendo un occhio, giusto per rendere l’idea di “poco”. Mi chiedo come mai gli italiani abbiano questa mania di gesticolare. A volte è alquanto irritante.
Finisco di lavarmi i denti, sciacquandomi la bocca al rubinetto. Mi volto dandole le spalle, serro i denti e… Signore, questo fischio nelle orecchie è davvero fastidioso!
«Oh, andiamo, hai intenzione di ignorarmi per il resto della tua vita?»
Sì. È proprio il mio obiettivo. Lasciami in pace, non vedi che non mi sento bene?
«Almeno ti faccio compagnia, non credi?»
Sono stata sola per anni riuscendo a cavarmela, perché ora dovrebbe essere diverso? Ti prego, vattene, non mi sento bene!
Mi siedo sul divano, e tenendomi le mani sulle orecchie, alzo lo sguardo sofferente su di lei, in piedi vicino alla parete. La sua figura è quella di sempre, nessun segno del tempo che passa, vestita sempre allo stesso modo – il mantello che le scende fino alla caviglia, annodato per evitare che strisci a terra, i pantaloni attillati che finiscono dentro gli stivali, la casacca, sotto lo smanicato legato in vita da una cintura con inciso sulla fibbia quel simbolo che ormai è diventato la mia ragione di vita – stesso taglio di capelli, stessa voce, stessa consistenza evanescente.
Abbasso nuovamente lo sguardo, passandomi le mani sul viso. Ho cominciato a sudare freddo.
Guardo l’orologio al polso destro. Sono le 9:50. È qui da venti minuti o poco meno.
“Finché non superano i dieci secondi, non c’è da preoccuparsi!” dicevano, “Non preoccuparti, vedrai che non ti succederà niente” dicevano! Cazzate, anche dieci secondi erano devastanti, figuriamoci ora!
Si avvicina, si siede di fronte a me, accavallando le gambe con fare molto femminile – molto diverso da me, effettivamente – io sobbalzo, mi fa una strana sensazione averla così vicina a me. Mi mette a disagio, o forse mi spaventa… o più semplicemente la mia parte razionale si rifiuta di condividere con il mio subconscio questo delirio.
«Astrid…»
Un rumore da fuori mi porta alla realtà, facendomi alzare di scatto, urtando il tavolino in legno fra i due divanetti rossi. Mi avvicino al vetro della finestra che da sul balcone – che per inciso sarebbe più opportuno chiamare porta-finestra, credo.
Sento un sibilo nell’aria, qualcosa di simile ad una freccia appena scoccata… ma chi giocherebbe mai a tiro con l’arco adesso? Poi un sasso mi manca per poco e d’istinto mi abbasso, osservando la sua traiettoria che si blocca dentro l’appartamento ai piedi di una lampada.
Piena di rabbia lo vado a raccogliere e gridando nella nebbia ogni tipo di imprecazione, lo lancio indietro.
«Oh, scusa Astrid, non credevo fossi lì fuori!»
Questa voce. La conosco. E impallidisco.
«Mi… mi scusi!» mi affretto ad aggiungere, mentre calo nel vicoletto a sinistra dell’abitazione, per evitare occhi indiscreti, una misera scaletta in legno. Non esiste una vera e propria entrata per la stanza al primo piano – non che a me servisse è chiaro – così per far salire quell’unica persona di cui mi fidi in questa città, mi sono arrangiata rubando questa scaletta da qualche parte.
«Figurati, Astrid. Comprendo la tua reazione» l’ombra si fa sempre più nitida fino a definirsi in un signore anziano, sulla sessantina, con un paio di occhiali rossi e tondi sul viso e una leggera barba brizzolata sul mento e sulle guance.
Il Dottor Barigozzi.
Il medico luminare della città. L’unico che abbia vinto premi importanti per l’invenzione di macchinari ospedalieri in simbiosi con tecnologie avanzate provenienti dall’est Europa.
C’è chi pensa sia un transumanista, ma è una sciocchezza. A parer mio è solo un vecchietto con tanto carisma e tanta ambizione.
«Si faccia aiutare, Dottore» allungo le braccia per cingergli le spalle, e nonostante la sua mole sia decisamente molto maggiore alla mia, sento che in parte cerca il mio appoggio.
«Oh, grazie, grazie!» fa lui sistemandosi il soprabito nero reso lucido dalla fine pioggerellina che cade incessante da questa mattina.
«Si figuri!» con un cenno della mano lo invito a varcare la soglia della porta-finestra, mentre con l’altro braccio continuo a sorreggerlo.
Lo faccio accomodare su uno dei due divanetti rossi sgualciti – e un po’ impolverati – e io mi siedo sul secondo, esattamente di fronte.
Segue un silenzio imbarazzante, mentre io mi strofino le mani e muovo freneticamente il piede, e il dottore si asciuga le lenti degli occhiali con un lembo del lupetto, dopo essersi tolto il soprabito e averlo piegato minuziosamente.
«Mi dica, Dottore... non l’aspettavo prima di tre settimane» decido di interrompere quel silenzio andando direttamente al punto, perché non nego di essere preoccupata nel vedere la sua presenza proprio qui, proprio ora, quando è solito farmi visita solo quando è strettamente necessario.
«Oh… capisco. Ma vedi sono venuto a conoscenza di alcuni fatti che potrebbero stravolgere i tuoi piani, e i tuoi tempi, temo…»
Rimango leggermente a bocca aperta tanto che sono incredula a quelle parole. Non mi aspettavo tanta franchezza!
«Ma ora passiamo alla tua visita» non mi da neanche il tempo di chiedergli qualcosa che dalla borsa tira fuori uno stetoscopio e un oggetto metallico, rettangolare di cui non ho mai saputo il nome.
«Mi scusi, Dottor Barigozzi… ma cosa intendeva dire con “stravolgere i tuoi tempi”?» non nego che la mia voce trema.
«Suvvia, Astrid, Credi che non sappia cosa è successo ieri sera?» domanda lui alzando lo sguardo dal mio polso destro alla felpa buttata a terra ancora macchiata di sangue.
Deglutisco.
Il dottore continua a tastarmi il polso mentre con lo stetoscopio passa da una parte all’altra del mio petto.
Mi guarda nuovamente negli occhi con un sopracciglio inarcato.
Come potrei riuscire a controllare il mio battito cardiaco dopo aver saputo una cosa del genere?
Una marea di pensieri mi pervade la mente. Che non mi possa più fidare di lui?
No, è impossibile! Avrebbe già portato gli Agenti qui. E invece non l’ha fatto.
Mi lascio sfuggire un sospiro di sollievo.
«Ottimo, sembra che il tuo fisico sia in perfetta forma!» afferma il dottore, poggiando con cura lo strumento sulla borsa alle sue spalle.
“Meno male”
«Astrid, come va con le visioni?» improvvisamente sento tutta la tensione del momento sulle spalle, sulle braccia, sento l’umidità proveniente da fuori appicciarsi ad ogni mio centimetro di pelle. Lo fisso negli occhi per un solo istante, poi sposto lo sguardo un po’ più a destra, verso l’angolo della stanza.
Non bene.
Non mi rendo conto se rispondo talmente piano da non rendermene conto o se non parlo affatto.
«Circa quanti minuti?» non rispondo. Continuo a guardare oltre le spalle del dottore, al punto da farlo girare dalla curiosità.
Lei è lì appoggiata al muro, con le gambe incrociate che si fissa un po’ le unghie e un po’ le ciocche di capelli. Un brivido mi percorre la schiena e torno a fissare l’uomo di fronte a me.
«Solo oggi, compresi questi cinque minuti? Venticinque minuti.» cerco di fare un po’ d’ironia, anche se in realtà non sarebbe proprio il caso.
Il dottore muove le sopracciglia in così tante espressioni da non capire più cosa pensa. All’inizio le inarca, sorpreso, poi le aggrotta, preoccupato, poi ne inarca uno solo, pensieroso, portandosi una mano sul mento lisciandosi quel po’ di barba che ha in viso.
«Okay, allora ti ho già prescritto nei mesi scorsi delle pillole di clozapina, ma a questo punto, se quello che dici è vero, dovrai assumerne con un dosaggio più alto.»
Io lo ascolto, osservandolo mentre su un foglio scrive il nome del farmaco e la quantità che devo prenderne.
Rinfodera la penna nel taschino interno della giacca accanto a lui e si appoggia allo schienale del divano, accavallando le gambe.
Dopo un lungo sospiro si toglie gli occhiali rossi.
«Astrid, riguardo a quanto ho detto prima sul “stravolgere dei tuoi tempi”…» ecco sì, mi dica «…l’arrivo degli Agenti Abstergo ieri sera, non è stato puramente casuale. Ho motivo di credere che l’hack non abbia funzionato correttamente.»
Giro il polso sinistro per guardare inorridita il simbolo del mio declino. Stringo il pugno con forza tanto da sbiancarmi le nocche, da lasciarmi quattro piccole lunette sui palmi delle mani.
«Com’è possibile?» la voce esce roca, continuando a fissare il polso.
«Non lo so. Sta di fatto che, mi rincresce dirlo, devi andartene. Per questo sono venuto qui proprio oggi, in modo da farti un’ultima visita prima che tu parta.»
«E dove andrò?» anche la figura evanescente si avvicina incuriosita dalle parole del dottore, a passo fermo, ancheggiando sinuosamente, con le braccia incrociate sotto il seno.
La guardo per qualche istante negli occhi trasparenti, quasi senza accorgermene, come per cercare un supporto.
Digli qualcosa.
Ma cosa?
Qualunque cosa!
«Non posso andarmene. Appena entrata in un qualunque aeroporto non passerebbe un’ora che già mi rintraccerebbero!» dico portandomi le mani fra i capelli. Quel fischio assordante non è ancora passato, maledizione!
Ho bisogno di alcol, devo bere. Avverto la necessità nel mio corpo di farmi non so quanti cicchetti per riuscire a farmi una ragione di tutto quello che sta succedendo.
«Infatti non te ne andrai in aereo.»
«Come, prego?» rimango stupita dall’affermazione dell’uomo. Anche perché non capisco, l’aereo è il modo più veloce di viaggiare – e scappare!
«Come dici giustamente tu, Astrid, se prendessi l’aereo l’Abstergo non esiterebbe a farlo saltare mentre decolla ignorando completamente che sopra ci possano essere persone civili. Quindi…» comincia lui con un tono sicuro, di chi sa il fatto suo. «quindi, viaggerai in autobus, e in nave.»
Autobus? Nave? Sta scherzando spero…
«E dove dovrei arrivare?»
«Non dove, bensì da chi devi arrivare. E tu conosci bene la risposta»
Ebbene sì. Dopo non so quanto tempo su questo dannato capitolo sono riuscita a completarlo, e devo dire che mi ritengo anche abbastanza soddisatta!
E' l'1:11 (porta fortuna?) e non ho molta voglia di scrivere tanto nell'angolo della castagna, quindi passiamo subito col ringraziare tantissimissimo quella
donnah chemi ha aiutato a far uscire questo capitolo: Relya Lestrange!
Grazie amica mia :') (CARRY OH-OH-OH-OH-ON!)
Poi ringrazio la Rastaban_ che da facebook è passata a commentare questa prima sequenza genetica (:
Comunque la verità è che non l'ho riletto, quindi potrebbero esserci molti errori di grammatica, anche perchè finire un capitolo a quest'ora per non perdere l'ispirazione è un colpo di genio (?)
Alla prossima, salute e pace!
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Assassin's Creed Genderswap [Assassin's Creed Fanfiction]
ФанфикLa storia è organizzata come il database dell'animus. Sequenze con all'interno ricordi. Nota: "Genderswap" non sta per la regola che dalla sera alla mattina diventi del sesso opposto, ma sta a indicare il cambiamento di sesso all'interno dell'Animu...