The best mistake ever.
(Larry Stylinson One Shot)
"Bentornati a tutti! Questa sera abbiamo qui con noi un ospite speciale; il testimone conosciuto ormai in tutto il mondo per la pubblicazione del suo libro 'L'errore migliore di sempre' ispirata alla sua esperienza dietro i cancelli di Aushwitz, il signor Louis Tomlinson!"
Gli applausi si fecero sentire nella sala affollata e Louis sorrise, salutando tutti con un cenno della mani per poi accarezzarsi la barba spuntata sul suo volto.
"Ci dica, lei ora ha più settantenni, vero?"
"Ah, triste ma vero mia cara. Non sono ancora da buttare, però, diciamo il vero eh" Accennò un sorriso, facendo scoppiare tutti in una fragorosa risata.
"Dunque, le andrebbe di spiegarci un po' di cosa parla il suo libro schizzato alla stelle fra i più venduti in America e in gran parte dell'Europa? Personalmente, quando l'ho letto, sono rimasta stupefatta da ogni singola parola; lei è un uomo molto coraggioso.." Si scatenò di nuovo il secondo applauso collettivo e il terzo sorriso dell'uomo particolarmente commosso da quelle parole a lui dedicate.
"La ringrazio davvero molto, queste pagine racchiudono un'esperienza durata qualche mese, ma che per me ha significato la vita intera"
"Quindi ci leggerà qualcosa da queste famose pagine a cui lei tiene tanto?"
Louis annuì e il pubblico si agitò di nuovo, mentre lui si schiarì la voce e prese fra le mani il libro color blu notte, per poi recuperare il segno della pagina da lui scelta per quell'occasione. Iniziò a leggere, mettendo a tacere la settantina di persone di fronte a lui che nel frattempo si erano già perse nelle sue soavi parole.***
"Le urla assordanti di quei soldati ci tennero svegli per tutta la notte. Nonostante ci obbligassero a dormire almeno cinque ore per poter produrre più lavoro possibile, non si rendevano conto che con tutto quel frastuono non si poteva chiudere occhio nemmeno per un secondo. Quando poi si poté intravedere uno spiraglio di luce oltrepassare gli assi di legno della vecchia capanna, quelle parole, prive di significato per tutti noi, furono più vicine e ci spinsero a scendere dalle catapecchie in metallo che quella gente osava chiamare letti. Erano alti e non abbastanza grandi per permettere a tutti noi di acquisire una posizione comoda durante il sonno. L'aggettivo comoda è fin troppo azzardato, dato che il nostro materasso era una lastra di ferro arrugginito, non esisteva coperta che ci riparava dal freddo invernale e il nostro cuscino, o almeno per alcuni di noi, era la stessa ciotola dalla quale eravamo tenuti a mangiare ogni giorno.
Fu un'esperienza traumatizzante quella di aprire gli occhi ed avere come prima la visione del mio compagno intento in un urlo straziante, data la forza che quel soldato ci mise nel spezzargli la gamba quando si accorse della resistenza che stava opponendo quella mattina per uscire nei campi. Si chiamava Jerry, ed era uno con la quale avevo stretto di più in quel luogo, dato che era uno dei pochi che sembrava aver mantenuto una mente lucida dopo la sequestrazione. Non potei chinarmi ed aiutarlo ad avanzare, perché mi avrebbero fatto fare la stessa fine e non sarebbe stato d'aiuto né a me né a Jerry. Continuai così a camminare in coda con il resto dei ragazzi. Dietro di me si trovava un ragazzino di appena dodici anni, sopravvissuto allo smistamento iniziale grazie alla bugia che suo padre raccontò per evitare di vederlo morire insieme ad altri bambini uccisi ingiustamente dopo essere stati privati di ogni bene superfluo, come i loro abiti sporchi e di piccole dimensioni o i loro giocattoli in legno che avevano nascosto nelle tasche, credendo di non essere beccati.
Mi svegliavo ogni giorno con il dubbio di cosa fosse accaduto alle mie amate sorelle e a mia madre, che vidi scomparire il giorno dell'arrivo intente a perdere centinaia di lacrime disperato e decisamente le più tristi che abbia mai visto in vita mia. I miei pensieri andavano tutti a loro e cercavo di essere sempre corretto nel mio lavoro, di non lamentarmi mai, di non piangere, di non ribellarmi, di non infrangere le regole e di lavorare ininterrottamente con l'unico scopo di uscire al più presto da lì per poterle riabbracciare tutte e cinque.
«Tomlinson!»
Il mio cognome pronunciato in malo modo e con un accento nordico e duro risuonò nel campo, in un urlo proveniente dalla bocca di un uomo seduto a tavolino. Eravamo dinnanzi a decine e decine di uomini assonnati, infreddoliti e spaventati. Come ogni mattina. Risposi all'appello con un cenno, voce alta ed alzando un braccio, per far si che i due uomini in divisa mi notassero. Dopo di me nominarono molte altre persone, fin quando non ci diedero l'ordine di tornare a lavorare, con l'avviso che quel pomeriggio dieci di noi se ne sarebbero andati perché un nuovo carico era in arrivo. Durante tutta la giornata i più anziani non fecero altro che preoccuparsi, ricevendo talvolta anche dei colpi di frusta da parte dei soldati per colpa dei loro piagnucolii che servivano unicamente a perdere tempo. Se c'è una cosa che ho imparato in quel luogo è che il tempo è denaro e quando qualcuno più forte di te ti ha fra le mani, non hai alcuna via di scampo, ma a patto che tu non abbia vissuto la mia stessa esperienza.
Fin dal momento in cui ho varcato la soglia di quel luogo, considerato da me l'inferno, sapevo che non avrei avuto alcuna via di scampo e che avrei passato molto tempo lì dentro, provando esperienze che nessun essere umano vorrebbe sentire sulla propria pelle. Credevo di essere spacciato e che, nonostante avessi lottato con tutte le mie forze, non mi sarebbe mai stato concesso di rivedere la mia famiglia che stava dall'altra parte delle sbarre, cariche di scossa elettrica e continua.
Era in progresso un progetto ordinatoci dai tedeschi, che consisteva nella realizzazione di una nuova capanna che avrebbe dovuto fare da casa, oso dire, per tutti i carichi nuovi di ebrei. Uomini che andavano avanti e indietro con carriole, sacchi di cemento, assi di legno, chiodi e martelli. Io a quei tempi avevo ventidue anni ed ero forte, per questo mi furono assegnati i lavori più pesanti e faticosi, come l'assemblare gli assi sporchi o sollevare pesi che superavano il mio. Venivo anche sfruttato per lavori più affidabili, come percorrere il campo per dare scartoffi e avvisi ad altri generali che stavano sempre all'interno del campo, ma distanti dalla nostra zona lavorativa. E tutto questo solamente per la mia buona condotta. Facevo in modo che si fidassero di me, con l'allusione di poter uscirne vivo da lì, prima o poi. Non ho mai perso la speranza, nemmeno in momenti peggiori, come quando raggiunsi i quaranta gradi di febbre o calpestai il piede ad un soldato, per via della stanchezza ed instabilità.
Avevo raccolto le maniche all'altezza dei gomiti e mi ero dato da fare aiutando a portare quantità industriale di legna, quando mi chiamarono pretendendo che raggiungessi i due soldati spaparanzati su due sedie intenti a fumare. Un incarico, di nuovo.
Nonostante mi rivolgessero parole che a me parevano provenienti da una lingua marziana, mi fecero capire di dover andare dall'uomo giusto per poter consegnare un pacco di fogli ricoperti di parole raffigurate da una calligrafia storta e frettolosa. Afferrai quelle schede ed annuii incamminandomi verso il posto prestabilito. Quando mi voltai e capii di essere troppo lontano dalla mia capanna, diedi una veloce occhiata a quelle parole riconoscendo qualche nome. Era la lista dei prossimi da incenerire.
Lessi Robert e Jerry, e mi si spezzò il cuore in una frazione di secondo. Non potevano portarmi via due dei miei unici amici là dentro. No, non potevano. Ricordo di aver provato la sensazione del crollo di un macigno sulla schiena. Qualcuna delle mie ultime speranze sembrava essere volata via, dopo avermi lasciato. Presi un bel respiro e mi resi conto che non avrei potuto gettare al vento due mesi di duro lavoro svolto alla perfezione per un capriccio personale. Quelli però non erano due nomi a caso, non potevo fingere di non aver visto niente. Ero combattuto, per questo mi fermai nel mezzo del campo nel tentativo di ignorare le urla tedesche e quelle strazianti delle vittime a pochi metri da me per poter ragionare su cosa avrei potuto fare.
«Hey!»
Mi voltai con fare nervoso e spaventato, intravedendo un uomo farsi sempre più vicino a me. Era un soldato e non sembrava avere uno sguardo piuttosto sereno in volto. Iniziò a sfornare centinaia di parole nella sua incomprensibile lingua e tutto quello che potei fare fu starmene immobile ad ascoltare con la fronte corrugata e le sopracciglia inarcate, nel tentativo di fargli capire che io di quel che mi stava dicendo non riuscivo a capirne niente.
«Sei inglese?»
Rimasi sconvolto dalle sue parole, tanto da separare di poco le labbra sbrigandomi ad annuire freneticamente e con fare disperato, entusiasta di poter finalmente avere la libertà di esprimermi nella mia lingua con qualcuno che non fosse un mio compagno di capanna. Spiegai la situazione, cioè che avrei dovuto consegnare quelle carte al generale Conheb. Annuì afferrando fra i denti le sue labbra piene e rosee. Mandai giù per la gola della saliva, sentendomi provocato.
Se io non fossi stato ebreo, mi avrebbero rinchiuso comunque in uno di quei campi dato il mio orientamento sessuale. A quei tempi lo avevo scoperto da solamente qualche mese. Potete capire anche voi quanto i miei ormoni fossero a mille in quel periodo così pieno di sensazioni nuove.
Afferrò il pacco di fogli ed diede una sbirciata veloce, proprio come me, ma con un occhio molto più attento. Non sembrava avere cattive intenzioni nei miei confronti; i suoi occhi chiari, che richiamavano il colore dell'erba fresca di primavera, che non vedevo da tempo, erano sinceri e privi di oscurità. Non avrebbe mai potuto alzare le mani su nessuno, o almeno questa fu la mia prima impressione di quel volto così fresco ed angelico. Accennò addirittura un sorriso non appena alzò il volto. Mi diede una pacca sulla spalla, dicendomi che sarei potuto tornare alla mia baracca in pace, perché ci avrebbe pensato lui. In un certo senso, sentivo quasi come se mi dovessi fidare e permettergli di svolgere il compito al mio posto, ma la mia volontà di ferro mi diede la forza di contraddirlo e dirgli che era un mio lavoro e lo avrei portato a termine con le mie mani. Il suo sguardo si fece più duro e la sua mascella sembrava aver acquisito lineamenti meno dolci; evidentemente non aveva preso bene le mie parole. Scosse la testa ed incurvò le labbra in una smorfia, riconsegnandomi in modo brusco le carte e dicendomi di fare quel che avrei dovuto fare.
«Arrivederci, 16425»
Fece un cenno con la mano e chinò di poco la testa, per poi incamminarsi dalla parte opposta. Lo stetti ad osservare per svariati secondi cercando di realizzare quel che era appena accaduto. Ricordo di aver pensato perché diamine non fosse lui uno dei soldati responsabili della mia baracca. Era così carino, sia dentro che fuori a quanto pare. Si era addirittura chinato per poter leggere le cifre segnate sulla mia divisa, per poi salutarmi educatamente e senza punirmi per la mia piccola ribellione nei suoi confronti. Non avrei mai creduto di sperare di poter rivedere uno dei soldati di quel campo. Li facevo tutti mostri senza cuori, senza un po' di pietà per noi poveri innocenti e oltretutto trentenni, sposati con donne destinate a sopportare uomini bruschi e maleducati per il resto della loro vita. Quello era un ragazzo educato e non sembrava avere l'età per possedere già una famiglia.
Continuai a camminare fin quando non raggiunsi la mia destinazione e consegnai la lista al solito Conheb, che si limitò a rubarmi di mano il pacco per poi sputare alle mie spalle non appena uscii dalla porta. Presi un respiro profondo, per la seconda volta, cercando di ignorare la sua risata dall'altra parte della baracca, anche se era veramente difficile.
Quando tornai al campo pensai a quanto fossi stato fortunato ad essere stato assente per quei venti minuti. Avevano colpito alla testa una coppia di ragazzi, e secondo le voci di corridoio, erano stati beccati mangiare dei pezzi di pane di cui nessuno seppe mai la provenienza. Furono chiamati altri soldati accompagnati da tre cani di grandi dimensioni per setacciare ogni singolo angolo di quella parte di campo per scoprire chi e a che orario donasse cibo. Io proseguii il mio lavoro come niente fosse accaduto, rivolgendo talvolta i miei pensieri a quel ragazzo dagli occhi verdi e osservando Jerry e Robert, consapevole che non li avrei avuti più al mio fianco la mattina seguente."
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The best mistake ever
Teen FictionE se dietro i cancelli di Aushwitz si fosse nascosta la storia d'amore più bella del mondo? E se i due innamorati volessero rimanere nascosti? E se dopo tutti questi anni uno di loro due avesse scritto un libro a riguardo? [Larry] (Tematiche delicat...