Il bicolore rimase ancora per alcuni minuti fermo lì, seduto sul pavimento, davanti al comodino che fungeva da altare, altare funebre, come se restare inginocchiato a terra potesse riportare lui indietro.
Quanti anni erano passati...? Due, come minimo. O forse tre. Comunque troppi.
Ma a pensarci, cos'era un giorno, un mese, un anno, ora che ogni secondo della sua vita era identico al precedente e sarebbe stato identico al successivo...?
Cos'era un'intera esistenza, se non aveva nessuno a cui dedicarla?
Se era solo, più solo di quanto fosse mai stato?
La sua vita, pseudo vita, era sempre stata racchiusa da una selva di rose, rose rosse e bianche, un bosco folto, forte abbastanza da resistere all'inverno e alla siccità, rigoglioso e vivace, magnifico visto dall'esterno; il punto era solo che, appunto, tutti si limitavano a guardare all'esterno, senza pensare che le rose erano talmente spinose che facevano male, facevano sanguinare, tagliavano, ferivano, ferivano perfino lui stesso.
E lui, lui si era sempre impegnato a nascondere le spine dietro ai petali, nella vaga speranza che le persone non le vedessero, che fossero ingenue abbastanza da non notarle, misericordiose abbastanza da ignorarle, buone abbastanza da accettarle.
Ogni rosa ha le sue spine, d'altronde, anche se cerca disperatamente di nasconderle.
Esistono ancora, dietro l'ombra delle corolle: chiunque si fosse addentrato nel suo bosco di rose ne era uscito talmente martoriato che ne aveva per sempre chiuso la porta, arresosi alla certezza che fosse impenetrabile.
Un impenetrabile bosco di solitudine, che lo ingabbiava e lo imprigionava, incatenandolo nel suo nucleo, mettendo a tacere le parole che cercavano di uscirgli dalla gola, sviluppandosi attorno a lui fino a soffocarlo, con quei petali bianchi come la neve e rossi come il sangue, bianchi come il ghiaccio e rossi come il fuoco.
Un bosco talmente impenetrabile che neppure lui riusciva a conoscerlo del tutto, e ogni porta sbattuta in faccia rendeva quelle rose più forti e rigogliose, ogni rifiuto faceva stringere le loro fronde attorno al collo di un normale ragazzino.
Era cresciuto nella certezza di dover essere perfetto, nella certezza che solo i perfetti vengono accettati e acclamati, nella certezza che solo i numeri uno valgono qualcosa, e quella certezza lo aveva corroso ogni giorno di più, perché era altrettanto radicata in lui la certezza che non ne sarebbe mai stato all'altezza.
Aveva vissuto ogni ora della sua vita in un'infinita rincorsa del se stesso immacolato che tutti volevano, fin quando non era crollato, distrutto, convinto che nessuno l'avrebbe mai aiutato, che avrebbe dovuto farcela da solo.
In quel momento, una mano si era posata sulla sua spalla.
«———❄️——🔥———»
Il secondo anno alla U.A. era stato uno tra i peggiori della sua intera vita.
Proprio quando sembrava andare tutto bene, quando il diventare un "vero eroe" sembrava un obbiettivo così vicino, i nervi che aveva tenuto saldi da sempre, erano crollati, lasciandolo vulnerabile, come un pulcino appena nato, spaventato dal mondo, e i suoi compagni non se n'erano neppure accorti.
La vita andava avanti, anche senza di lui, la vita lo aveva lasciato indietro, e non aveva alcuna intenzione di recuperarlo.
Il senso di solitudine, che da sempre gli stringeva il collo, impaziente di soffocarlo, si era acuito, era diventato uno spillo che gli punzecchiava la gola e il petto, e che voleva squarciare la pelle, spezzare le ossa, smembrare la carne.
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When It All Started - Villain Shouto Todoroki A.U. - One Shot
FanfictionDove tutto era iniziato... ...tutto era finito.